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Con lo sciopero gli statali insultano chi li paga

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Conviene ripartire da un sempiterno aforisma di Margaret Thatcher, la Lady di Ferro che oggi molti riscoprono in rete come fenomeno pop in quanto protagonista della serie tv The Crown, ma che per decenni è stata trattata come un’appestata dal pensiero unico di sinistra e di destra (spesso una parodia del primo), poiché madrina di un fantomatico “liberismo selvaggio”, di cui nell’Italia corporativa non si è vista manco l’ombra.

Diceva Maggie che “non esiste il denaro pubblico, esiste solo il denaro dei contribuenti”. Non esiste capacità di creare ricchezza dal nulla, dentro quel corpaccione artificiale e preordinato che è lo Stato. Questa facoltà, che assomiglia piuttosto a un miracolo, metafisico eppure concretissimo, risiede solo nell’intraprendenza degli individui che naturalmente e liberamente producono beni, li scambiano, ci guadagnano, investono i guadagni nella produzione degli altri beni, e via all’infinito in quel circolo virtuoso che Friedrich Von Hayek chiamava mondo della “catallassi”.

Ora, nessuno qui pretende che il sindacalista medio faccia propria la nozione hayekiana di catallassi, la quale peraltro implicherebbe per costui la prosaica conseguenza di dover trovarsi un lavoro. C’è una questione umana, però, nemmeno economica, puramente esistenziale, che in era pandemica non possono non scorgere nemmeno i capi della Triplice, la Santa Alleanza Cgil-Cisl-Uil che ha proclamato lo sciopero nazionale dei lavoratori della pubblica amministrazione per il 9 dicembre.

Vale a dire: gli statali, tecnicamente coloro che hanno lo stipendio garantito a fine mese, protestano mentre fuori, nel mondo che non si abbevera alla mammella pubblica, i non garantiti chiudono, vengono serrati da quello stesso Stato e spesso per questo falliscono, stritolati da tasse, bollette, spese fisse ineludibili oggi, nell’attesa chimerica di un “ristoro” domani (odiosa espressione che nella neolingua di Conte-Casalino indica il teoricamente dovuto rimborso a fondo perduto).

È la grottesca lotta di classe contemporanea, dove a sollevarsi sono i privilegiati, coloro che quantomeno posseggono un paracadute, che nelle crisi sistemiche spesso fa la differenza tra avere il pane a tavola e non averlo, mentre gli autentici deboli odierni, i commercianti, gli artigiani, le partite Iva, i piccoli imprenditori, affogano nell’indifferenza generale, con i virologi di regime come Massimo Galli che cianciano “non vedo morti di fame” (per forza, il suo punto d’osservazione sono i talk televisivi).

Già tutto ciò è abbastanza sgradevole, diremmo umanamente indifendibile. Aggiungeteci che i lavoratori statali scioperano perché la nuova legge di bilancio prevede sì un aumento dei loro stipendi, ma non abbastanza corposo. Cioè: non solo il bonifico è garantito, è pure rimpolpato, ma non è comunque abbastanza. Il governo ha messo nella manovra 400 milioni aggiuntivi, loro ne pretendono altri 600.

Un miliardo di euro in più per la Pa, mentre molti autonomi non hanno visto i 600 euro di maggio, di aprile, perfino di marzo: è peggio di una provocazione, è uno sfregio dichiarato, la certificazione che ci sono lavoratori di serie A e lavoratori di serie C (B non rendeva il fossato che si è spalancato tra queste due Italie).

Torniamo allora alla sentenza thatcheriana, perché il vero non-detto straniante, offensivo, osceno sta qui: l’umanità di serie C, che sta andando a fondo, persevera a produrre quelle risorse con cui sono pagati gli stipendi dell’umanità di serie A, che non si accontenta, ne vuole di più, e sciopera. È il cortocircuito finale dello statalismo, innescato dal Coronavirus: i soldi dei garantiti provengono dal lavoro dei non garantiti, né può essere altrimenti. Ma i non garantiti oggi in gran parte non ce la fanno più.

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