Si è tenuta nei giorni scorsi un’assemblea degli industriali romani. Sono alla ricerca del nuovo presidente. La cosa sarebbe ovviamente irrilevante persino per questo modesta zuppa di porri, se non fosse per quello che sta succedendo. Vedete il rammarico è che la saga della Confindustria non la scriva Wodehouse, e che non si possa descrivere la storia della cricca romana, alla stregua di una competizione per la scrofa più bella del Berkshire. Non ci sono lord decaduti, mancano gli smoking bianchi per andare in Costa Azzurra, e soprattutto non si trova in giro Jeeves. Un maggiordomo razionale, snob e intelligente che eviti di fare cappellate ai propri padroni. Vabbè, avete capito che siamo di fronte ad una farsa.
La situazione è semplice. C’è un imprenditore, senza offesa un po’ folle, che si è messo in testa di fare il presidente degli industriali romani. La vena di follia consiste nel fatto che la sua azienda non sia fallita e non sia neanche in concordato preventivo. Tutte condizioni per diventare un ottimo candidato a rappresentare l’industria laboriosa. La sua impresa è una delle poche che fattura miliardi di euro. Ha utili e margini in crescita. Fattura il 90 per cento all’estero. L’imprenditore l’ha creata dal nulla e l’ha pure quotata. È nel mondo del green, ma quello vero non le palle di Villa Pamphilj.
Scoccia nominarlo, qualche psichiatra potrebbe andarlo a prendere a casa. Ma il dovere del cronista è citarlo: Fabrizio Di Amato e la sua azienda si chiama Tecnimont. Capiamo gli specialisti che si interrogano sui motivi per i quali un signore ricco, con un’azienda di successo internazionale voglia entrare nel club dell’Unindustria. Quella parola magica non vorremmo neanche dirla, tanto è abusata: spirito di servizio. Scusate, l’abbiamo detto.
Insomma nella nostra saga abbiamo svelato il Primo attore. Ma non si tratterebbe di una bella storia se non ci fosse un colpo di scena. Gli attuali vertici di Confindustria (Anche lei Bonomi, neo pres, è tra costoro, toc toc?) questo Di Amato non lo vogliono. Ma come, pensano, ha fatto tutto, e mo’ vuole prendersi il nostro giocattolino qua a Roma? Si devono essere chiesti. Tirano così fuori dal cappello uno straordinario sconosciuto come sua alternativa che ha la favolosa caratteristica di non possedere un’azienda: è l’uomo che ci vuole per gli antichi romani. Però non tutti gli iscritti hanno ancora deciso di farsi il piercieng al cervello e in molti hanno subito apprezzato Di Amato. In un duello normale vinca il migliore, o meglio vinca chi ha più voti.
Roba da principianti. Non basta. E cosa ti scovano i nostri eroi: il regolamento. Manco fossero a «Indietro tutta». Certo, a leggerlo sembra che ci sia Frassica. Il sommo regolamento prevede, infatti, che per diventare presidenti di qualcosa si debba fare parte di quel qualcosa da almeno un anno. E qui casca Di Amato con le sue 130 aziende, miliardi di fatturato: si è reiscritto a Roma da 6-8 mesi. Poco conta che lo sia stato per anni in precedenza. E poco conta che sia responsabile del centro studi di un’altra territoriale come Assolombarda e che contribuisca da anni, immaginiamo con milioni di euro di iscrizioni pagate, al sistema di Viale dell’Astronomia. I probiviri romani dicono che è ineleggibile. Non occorre Jeeves e neanche la magnifica Scrofa di Blandings per capire la ratio della norma: non può candidarsi alla presidenza di una roba confindustriale un parvenue appena iscrittosi, magari proprio per fare la scalata. Qualcuno inoltre sussurra che anche un recente pres è stato nominato piuttosto verginello, senza tanti probiviri a fare le pulci.
L’operazione è chiara, si sbatta la statuto in faccia a Di Amato e il ricco imprenditore torni in azienda, che alla Confindustria ci pensano loro. E pensare che da quelle parti ci sono anche persone in gamba, ad esempio uno come Stirpe, sa cosa è un’impresa di cui non solo è dotato ma che conduce magnificamente. Toc toc La Regina, un altro che decide, pur non avendo proprio un curriculum da Jeff Bezos, ma veramente avete il coraggio di criticare il governo per le sue pastoie burocratiche per i suoi intrighi da Codice degli Appalti e poi non permette la corsa ad uno dei vostri? (no, scusate non intendo esattamente uno dei vostri, nel senso di collega imprenditore, perché pochi tra voi lo sono davvero).
E arriviamo al castello di Blandings e ai suoi salotti. Nei giorni scorsi si sono addensati dei torbidi. Gli è che in assemblea piccoli e grandi imprenditori si sono alzati in piedi (Leonardo, Enel, Rds e alcuni piccoli) e hanno detto: ueeee ma che siete matti, ma davvero non volete far correre per la presidenza il più importante imprenditore industriale privato romano? Sono matti loro, come insegna Wodehouse al concorso della vacche; Berty, la più bella delle scrofe non vince mai. Ma quella è satira e qui dovremmo ragionare di cose serie.
Nicola Porro, Il Giornale 28 giugno 2020