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Conte bis? Sarebbe una barzelletta

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Provate a immaginare se nel 1990 Meggie Thatcher, messa in minoranza dal suo partito, i Conservatori, invece di dimettersi, avesse cercato di varare un Thatcher bis con l’appoggio dei Liberali o dei Laburisti. O, per stare all’attualità, se Merkel, di fronte alle bizze dei socialdemocratici, decidesse di sostituirli con i Verdi, senza passare dal voto. Nel primo caso gli inglesi avrebbero circondato Westminster con forconi e torce, nel secondo i tedeschi protesterebbero duramente, anche se alla loro maniera. Nelle vere democrazie sono casi da barzelletta o da romanzo distopico. Nelle democrazie incompiute, come la nostra, invece sta accadendo. Lo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ha presieduto una maggioranza ora frantumata, si appresta a esercitare il medesimo ruolo, solo sostituendo un pezzo di quella con l’opposizione. Ribaltone o operazione da palazzo sono solo gentili eufemismi. Si tratta, per utilizzare un termine politologico, di una gigantesca porcata. Non a caso negli annali del parlamentarismo italiano, che pure in fatto di intrugli possiede una lunga e ricca storia, mai a questo livello si era giunti.

Alcuni laudatores del costituendo governo stanno cercando precedenti nella storia. Ma, non essendocene, sono costretti a falsificarla. Qualcuno è risalito ai tempi di Giolitti. Ma a parte che all’epoca non esistevano partiti, e la divisione in parlamento era definita da logiche notabilari, Giolitti ebbe il buon gusto di restare fuori dal governo per un paio di anni prima di cambiare maggioranza. E comunque la spregiudicatezza del giolittismo fu all’origine della vittoria del fascismo. Altri hanno citato il caso del governo Andreotti II del 1976 che, diventando III due anni dopo, allargò la sua maggioranza al Partito comunista.

Ma è un esempio del tutto fuorviante: il governo Andreotti II era un monocolore DC, a cui tutti i partiti, tranne radicali e Msi, non votarono la sfiducia (da qui il nome di governo della «non sfiducia »). Sull’emergenza del rapimento Moro, nel 1978 il nuovo governo, con lo stesso presidente del consiglio, fu rafforzato dal voto favorevole di tutti i partiti (tranne Msi, liberali e radicali), in particolare di quello del Pci di Berlinguer. Quindi non vi fu sostituzione della maggioranza con l’opposizione, ma un suo allargamento: in ogni caso il Pci non entrò al governo e  l’Andreotti III rimase un monocolore Dc.

Piuttosto è come se Andreotti, di fronte alle bizze del Pci, avesse deciso di farne a meno e di sostituirlo con i voti del Msi: un esempio riportato da due critici del pastrocchio giallorosso non certo sospettabili di salvinismo, Pierluigi Battista e Michele Ainis. Per quanto Andreotti fosse uno spregiudicato tessitore di trame di palazzo, questa pensata di Conte e dei 5 Stelle (ma solo loro?) richiede un pelo sullo stomaco di cui persino Belzebù era privo. Pelo che invece possiede Giuseppe Conte. Il quale, se l’operazione andrà in porto, passerà alla storia come il primo presidente del Consiglio ad aver guidato, senza passare dal voto e senza soluzione di continuità, anzi in poco più di quindici giorni, due governi composti da maggioranze non solo diverse, ma opposte tra loro.

Un guinness dei primati non solo italiano; un caso del genere non si è mai avuto in nessuna democrazia europea, neppure nella fantozziana Quarta repubblica francese, pur assai adusa al trasformismo parlamentare, che non a caso durò solo dodici anni e rischiò di finire con la guerra civile e un golpe militare, se il generale De Gaulle non avesse salvato la Francia liberandola dal parlamentarismo. Sì perché, la porcata in corso (su cui il presidente della Repubblica dovrebbe avere qualcosa da ridire) è resa possibile da mille fattori; ma soprattutto dalla decomposizione, ormai giunta allo stato di necrosi, del sistema parlamentare italiano. Come successo altre volte nella storia, anche nazionale, l’apoteosi del parlamentarismo rischia di portare non solo alla sua fine: ma anche a quella del parlamento tout court.

Marco Gervasoni, 27 agosto 2019