Ai tempi della Prima Repubblica, quando la comunicazione di Palazzo Chigi non veniva gestita, sotto la regia del Grande Fratello, dalla “coppietta che scoppia” Conte-Casalino, i documenti riservati non uscivano mai e poi mai prima di essere firmati. E questo accadeva anche quando era obbligatoria la concertazione con le Regioni e gli enti locali, che, ovviamente veniva finalizzata a stati di avanzamento. Ciò succedeva per ragioni di rigore e per qualche accortezza che oggi, ai tempi di internet, sarebbe ancora più facile adottare.
Innanzitutto, i governi di allora si caratterizzavano per l’autorevolezza del Presidente del Consiglio, capace di trovare una sintesi politica in situazioni di emergenza, magari ricorrendo ad un Consiglio di gabinetto formato da non più di cinque o sei ministri. Mentre il governo Conte, proprio per mancanza di esperienza sia politica che di governo, ci ha imposto, al termine dei numerosi consigli dei ministri notturni, l’aberrante formula “salvo intese”.
Il Quirinale avrebbe dovuto censurare da subito quella che è diventata un’ignobile prassi consolidata foriera di incertezze e instabilità. Durante la Prima Repubblica, avveniva che, soltanto in occasione dei provvedimenti di bilancio, Ragioneria Generale e Presidenza semplicemente limassero alcune cifre prima di mandarle alla firma del Capo dello Stato.
Oggi invece, oltre ad essere completamente svuotato il prestigio del Presidente del Consiglio, a cascata c’è quello già compromesso del Capo di gabinetto, oggi Segretario generale, nonché del responsabile del DAG, Dipartimento degli affari giuridici. Tradizionalmente giuristi di valore, riconosciuti come tali da tutta l’Amministrazione Pubblica, capaci anche di coordinare l’attività dei colleghi degli altri ministeri. Per non sembrare nostalgici della Prima Repubblica, va evidenziato che anche nella Seconda, con Gianni Letta, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e con Antonio Catricalà, prima, e Mauro Masi, poi, a ricoprire l’incarico di Segretario generale di Palazzo Chigi, mai sono avvenute fughe di notizie clamorose come quella di sabato notte.
Con il governo Berlusconi, una ritualità, apprezzata da tutti e oggi rimpianta, era la riunione di pre-consiglio nella Sala Verde al terzo piano di Palazzo Chigi che deve il suo nome al colore della tappezzeria che ricopre pareti e sedie volta a concertare, in anticipo e nei dettagli, i provvedimenti da approvare nella seduta del Consiglio dei Ministri.
Così come avviene ancora oggi per le approvazioni delle delibere dei consigli di amministrazione delle società. Nella Prima Repubblica, ai tempi della carta carbone e del fax, prima dell’avvento dell’email o di whatsapp, gli uffici di Palazzo Chigi, se dovevano mandare bozze in giro, usavano le piccole accortezze del buon padre di famiglia: in primo luogo, mai carta intestata né date, né tantomeno le premesse. Solo gli articolati senza elencazione e per ogni destinatario una parola, una sola parola, diversa per ciascuno.
Era facile così trovare subito il colpevole di un’eventuale possibile fuga di notizie. Ma il premier Conte, che vive e governa in questi tempi social, dopo due anni e due governi, non ha ancora imparato neppure questo. E così, il suo Rocco Casalino continua ad impazzare, sentendosi ancora dentro un reality. Purtroppo per noi, però, non siamo all’Isola dei famosi.
Luigi Bisignani per Il Tempo 10 marzo 2020