Il Cameo, nella sua felice solitudine, si trova di fronte a un dilemma. Da un lato, nei prossimi mesi sarò impegnato a promuovere un mio (piccolo) libro (martedì 12 giugno ne ufficializzerò titolo e contenuti, molto personali) lontano mille miglia dalla politica, dall’altro sono interessato a continuare a studiare come sta evolvendo l’Italia per cercare di capire in che mondo vivranno i miei nipoti.
In questi giorni ho colto tre locuzioni politico culturali chiave:
1) “Ebbene sì, sono un populista” (Giuseppe Conte)
2) “La pacchia è finita” (Matteo Salvini)
3) “Non è escluso che l’Italia possa provare l’umiliazione della Troika” (Mario Monti)
Partiamo da quest’ultima locuzione. Premetto che ho una (personale) considerazione verso Mario Monti per una sua non banale, quindi non dimenticata, solidarietà nei miei confronti in occasione di un lontano Consiglio di Amministrazione della Fiat. Nel suo intervento in aula ha interpretato meglio di tutti il pensiero profondo delle opposizioni al nuovo governo: cercare di abbatterlo in qualsiasi modo. Sia chiaro tutto legittimo. In effetti, ci sono anni luce fra il “professore” e i “nuovi barbari”.
Conoscendolo, è di certo sincera e sofferta la sua preoccupazione per il possibile arrivo della Troika. Peccato però che, nella realtà, la percezione (sbagliata?) del grande pubblico verso la sua figura di ex premier è proprio quella di identificare lui stesso con la Troika. Sarà ingiusto (forse lo è) ma tutti i premier succedutosi dall’ambiguo anno 2011 non hanno ormai un grammo di credibilità nell’opinione pubblica: sono percepiti come dei “cacciaballe”, dei “venduti” (linguaggio di periferia che respingo).
La locuzione di Matteo Salvini scimmiotta quella di Gianni Agnelli “Ormai la festa è finita” detta il 1° luglio 1990 a margine di un’Assemblea Fiat, all’apparenza riferita all’azienda, in realtà messaggio per nulla sublimale alla politica di allora. A differenza di Salvini, l’Avvocato parlava pochissimo, usava sintetiche locuzioni oracolari (che i miei amici dell’ufficio stampa, il migliore su piazza, coniavano di volta in volta, dal calcio all’alta finanza) che avevano una caratteristica comunicazionale mitica: aprivano e chiudevano qualsiasi discussione. Caro Salvini, queste, per ora, sono raffinate locuzioni che lei non si può permettere.
La locuzione di Giuseppe Conte la giudico la vera cifra innovativa del nuovo governo. Dire orgogliosamente “ebbene sì, sono populista”, significa mettersi in radicale contrapposizione, in termini culturali, e non solo, al pensiero dominante del cosmopolitismo globalizzato delle élite al potere, con il rischio di essere resettato dai fautori del ceo capitalism, californiano-cinese. Complimenti Presidente, lei ha coraggio, dichiararsi oggi “populista” significa mettersi contro Bruxelles, Francoforte, Berlino, Parigi. Per far sopravvivere il suo governo dovrà augurarsi che le elezioni europee del 2019 vadano in un certo modo, che Donald Trump non venga abbattuto, che l’attuale classe dominante, sfiduciata, torni a casa, da pensionata. Improbabile certo, ma possibile.
Posso darle un consiglio? In termini di comunicazione, segua il modello dei suoi vice presidenti: visto che si è dichiarato uno “populista”, tenga un filo diretto con la “plebe” della Rete e del video, riferisca con assoluta trasparenza e onestà tutto ciò che fa (soprattutto ammetta gli errori). La comunicazione digitale è l’arma populista per eccellenza per difendere quelle classi sociali che si sono trovate progressivamente spostati verso il basso i “confini” della classe media e della povertà. Prosit.