Più che in uno stato sociale viviamo in uno stato fiscale. Nei rapporti con la pubblica amministrazione quel che conta non sono tanto i servizi forniti, ma i doveri pretesi. L’inizio del XXI secolo ha surrettiziamente cancellato lo stato sociale a beneficio di quello fiscale.
I due mostri si tengono insieme come due ubriachi che barcollano. Senza l’uno non si regge l’altro e viceversa. La caratteristica dello stato fiscale è la supposta bontà dei suoi principi fondanti: la cancellazione delle disuguaglianze e la fornitura di servizi pubblici essenziali.
Si tratta di due miti. Ecco perché.
1. La pretesa diseguaglianza italiana è un falso mito necessario per giustificare la funzione redistributiva del fisco. Se la diseguaglianza fosse il nostro problema economico, semmai per ridurla si dovrebbe aumentare l’accesso alla ricchezza dei più deboli e non già ridurre le possibilità per i più ricchi: la diseguaglianza insomma non si combatte con l’invidia sociale delle aliquote punitive, ma con l’emulazione e maggiore libertà di intraprendere.
Inoltre la supposta diseguaglianza italiana semplicemente non c’è. Dopo Giappone e America, siamo il terzo paese al mondo per numero di «ricchi». In Italia vi sono la bellezza di 30 milioni di cittadini con un patrimonio superiore ai 100mila euro. E il fatto che il 10 per cento della nostra popolazione più ricca detenga il 40 per cento dell’intera torta, ci mette al di sotto dei nostri competitor internazionali, che hanno percentuali intorno al 60-70 per cento. L’Italia è mediamente più uguale del resto del mondo sviluppato. Il che non è necessariamente un bene: la ricchezza è contagiosa.
2. Lo stato fiscale non alimenta i servizi pubblici, ma se stesso. Nel 2012 le spese pubbliche correnti saranno pari a 680 miliardi di euro. 20 miliardi in più rispetto a due anni fa. E nel 2014 la spesa corrente toccherà quota 700 miliardi di euro. Insomma la spesa pubblica cresce indipendentemente dai servizi forniti: va avanti per suo conto. Ogni anno qualche miliardo in più che si trascina, senza alcun servizio in più per i cittadini. La spesa pubblica è come un treno impazzito che invece di frenare i politici continuano ad alimentare grazie al nostro carburante-tasse.
Nei primi tre anni del governo Berlusconi le manovre fiscali sono state per circa metà del loro importo fatte da aumenti delle imposte. Poi è arrivata l’estate calda del 2011. E la coppia Tremonti-Berlusconi ha alzato il tiro. Con due manovrine estive ha raccattato più di 28 miliardi di euro (parliamo solo degli effetti sul 2012) di cui il 73 per cento è di nuove imposte (20,6 miliardi). Ma non è bastato. Arriva il governo dei tecnici che alla luce dell’emergenza sui mercati finanziari raccoglie ulteriori 20 miliardi (effetti sempre sul 2012) di cui 17,4 miliardi di maggiori entrate (l’87 per cento del totale).
La sintesi è presto fatta: il combinato disposto delle manovre fatte da Berlusconi-Tremonti e Monti ci porterà ad un aggiustamento del bilancio nel 2012 per 48 miliardi di cui 38 derivano da maggiori tasse. C’è dunque poco da stupirsi sui ragionamenti fatti ieri dalla Corte dei Conti e dall’Authority della privacy: per fare questo scempio il livello di tassazione in Italia è diventato tra i più alti del mondo e il rispetto dei diritti dei privati è cancellato in ragione dell’emergenza.
La procedura, come direbbe il Marchese del Grillo, è molto semplice: siamo in emergenza, bisogna ridurre il deficit, non si tagliano le spese, ma si aumentano le imposte, con il tentativo di recuperarle anche da chi non le paga. Et voilà: ci troveremo nel 2012 con una recessione da incubo. Vediamo di smontare pezzo per pezzo questi paradossi fiscali.
1. Siamo in emergenza e non potevamo che aumentare le imposte. Si tratta di una balla. Per pareggiare il bilancio si poteva tagliare la spesa pubblica: ma è politicamente più costoso. Con la stessa «violenza» con la quale il fisco entra nel portafoglio e nella vita privata di ognuno di noi, si poteva pensare di intervenire sui dipendenti pubblici.
Il punto è semplice. È meglio tassare fino alla morte i ceti produttivi o ridurre del 10 per cento il personale della pubblica amministrazione? Tanto per dare un numero le retribuzioni dei dipendenti pubblici sono pari nel 2012 a 171 miliardi di euro. Crediamo che sia vero ciò che sostiene Draghi e cioè che lo Stato sociale europeo sia morto: la conseguenza è ridurne le articolazioni, non inseguirne gli aumenti di costo.
2. Un’ondata di licenziamenti crea recessione. È evidente che una ristrutturazione dello Stato sociale ha un costo in termini (oltre che umani) economici. Ma l’alternativa che stiamo perseguendo non è mica indolore. Anzi il suo effetto finale è peggiore nel medio periodo.
Aumentare le imposte su famiglie e imprese deprime la crescita economica. E lo fa nella sua componente più efficiente, quella privata. È meglio avere un dipendente pubblico in meno e un’accisa sulla benzina più favorevole? Difficile non ritenere questa scelta più produttiva: consumo di più e creo maggiore ricchezza. Noi la mettiamo brutalmente, ma più sofisticati studi economici dimostrano come il taglio della spesa pubblica sia meno recessivo di un aumento delle imposte di pari entità.
3. Non abbiamo fatto altro che cercare di allargare la base imponibile. Balle, balle, balle. Quando aumenta la tassa sulla benzina o quando si ritocca un’addizionale locale sui redditi non si allarga la base imponibile (pizzicando gli evasori) si aumenta la tassazione su chi già paga. Quando si reintroduce una patrimoniale dal sapore espropriativo su case (Imu) e conti correnti (bolli vari) si ha la presunzione per questa via di far pagare le imposte a chi non le paga.
È vero. L’anziano signore che ha una casa potrebbe essere invisibile al Fisco. Così come il figlioccio viziato o il ricco ereditiere. Ma il risparmio (quello immobiliare e quello finanziario) non cadono dal pero, sono il frutto del reddito fatto nel passato. E tale reddito è stato già ampiamente tassato. Oggi pensare di martellare il risparmio, vuol dire applicare una doppia odiosa tassazione.
4. Ma spesso case e depositi titoli sono frutto di redditi evasi. Questa è la teoria di uno Stato di polizia. Siamo tutti colpevoli fino a prova contraria. No, cari signori. Non è accettabile in uno stato democratico questa inversione filosofica dell’onere della prova.
Sono un evasore? Dimostramelo. Non si può immaginare di tassare i patrimoni con il retropensiero che siano tutti figli di piccole o grandi evasioni e dunque si meritano un quid di tasse ingiuste. Tanto hanno qualcosa da farsi perdonare.
Dalla crisi si esce solo con una grande e coraggiosa rivoluzione fiscale: che restituisca ai privati il reddito prodotto.
Nicola Porro, Il Giornale 14 marzo 2012