Spiace interrompere il peana a reti, testate e account (quasi) unificati, ma due cose su Enrico Berlinguer, beatificato per il trentacinquennale della scomparsa, tocca dirle, prima che il santino prenda definitivamente piede. Il segretario aristocratico del Partito Comunista, di cui non a caso si celebrano quasi solamente virtù personali (lodevoli ma di per sé vuote di contenuto politico), è il nome all’origine di parecchie storture nazionali, perlomeno a occhi liberali.
Il “compromesso storico”, anzitutto. Un’espressione nobile per benedire il prosaico matrimonio tra ideologie ed apparati noto come “cattocomunismo”. Un ircocervo logico che aveva un unico comune denominatore: lo statalismo, il No all’economia di mercato in nome di uno pseudosolidarismo moraleggiante e dirigista. E che visse come gestione spartitoria del potere (alla Dc il governo nazionale, al Pci le amministrazioni e le roccaforti culturali) usando perennemente la spesa pubblica come leva del consenso. Qualcosa che spiega molto bene il deficit duraturo e trasversale di cultura liberale nelle classi dirigenti del Belpaese, e che Giulio Andreotti liquidò superbamente in diretta: “Il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica, storica. E, all’atto pratico, risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e il collettivismo comunista”.
E che dire dell’altro guaio che ci trasciniamo da decenni, la famigerata “questione morale”, tutto a firma berlingueriana? I partiti che fecero la Repubblica e la tennero dalla parte giusta della storia, cioè con le democrazie occidentali e nella Nato, ridotte a “macchine di potere e di clientela”, malaffare puro, mentre “per noi comunisti la passione non è finita”.
Nemmeno la passione per il comunismo. Non solo il mitologico “strappo” con l’Urss fu dilazionato e tardivo, ma non mise mai in discussione la teoria e la prassi marxiste di per sé, tanto che la proposta alternativa prese il nome di “eurocomunismo”, segno anche linguistico che Berlinguer non ruppe mai con la tradizione totalitaria della falce&martello.
La strombazzata “questione morale” originò poi almeno due sottogeneri. Il giustizialismo generico e feroce che arrivò all’apogeo con l’orgia manettara di Mani Pulite (dove ad essere nel mirino non erano singoli reati, ma proprio quel sistema dei partiti cannoneggiato da Berlinguer) e che oggi è una delle poche ragioni sociali che tiene insieme il Movimento Cinque Stelle. E il cronico complesso di superiorità etica delle sinistre, che più viene smentito dalla cronaca più trionfa nella retorica. Ci sono eredità migliori, diciamo.
Giovanni Sallusti, 11 giugno 2019