La vicenda di Silvia Aisha Romano meriterebbe un ampio, accurato, studio sulla nostra (in)cultura civica, sull’ideologia italiana, sulla crisi profonda e inarrestabile dello Stato nazionale, sul minestrone in salsa buonista composto dai vecchi e dai nuovi universalismi: quello illuministico dei diritti universali – il primo diritto è alla vita che va salvata a qualsiasi costo – e quello cattolico del siamo tutti figli di Dio: nessun prezzo è troppo alto se serve al ritorno del fratello smarrito. Non mancano nei vari commenti tratti sinceramente divertenti e marce indietro che sembrano dettate più dalla bassa politica che dalla morale.
Tipico il caso dell’Imam di Milano, Mahmoud Asfa che, in un’intervista a La Stampa del 12 maggio si era chiesto “come sia possibile considerare libera adesione a una religione mentre sei da mesi nelle mani di sequestratori tanto violenti come quelli di Al Shabaab. Non riesco a comprendere come una persona che è stata rapita possa poi abbracciare la religione dei suoi rapitori”. Lo stesso Asfa, il giorno dopo – sembra quasi una scena del film di Woody Allen Zelig – ha rivendicato con orgoglio la conversione di Silvia/Aisha a “una religione che non piace, una religione di pace che viene tirata in ballo da qualche area politica che per accaparrarsi voti una volta fa leva sulla paura, un’altra volta strumentalizza gli immigrati”.
A mio avviso, sul caso Romano, per quanto riguarda la conversione, non si poteva dir meglio di Tahar Ben Jelloun – v. “I misteri di una conversione”, la Repubblica 12 maggio: “Silvia/Aisha è diventata un personaggio che confonde le piste. Convertirsi a una religione dopo una riflessione matura, con cognizione di causa, per convinzione vera e profonda è una cosa assolutamente normale e ammessa. Ma convertirsi dopo aver passato così tanti mesi sotto la pressione di mercenari che utilizzano l’Islam come copertura per estorcere denaro a uno Stato, è una scelta che apre un dibattito. L’isolamento, il terrore, la paura di essere uccisi sono ingredienti che a volte perturbano la ragione e la libertà di spirito. È un’angoscia profonda quella che probabilmente ha dettato a Silvia una scelta del genere. Ora è libera sia di accettarla consapevolmente sia di liberarsene”.
E per quanto riguarda, invece, l’aspetto umano e familiare, ha scritto un pezzo da antologia Domenico Quirico su La Stampa del 12 maggio: Quel senso di colpa che colpisce i sopravvissuti. Dopo lo liberazione, vi si legge, arriva l’urto del senso di colpa “brutale, impietoso. Perché hai davanti a te le persone che la sua vicenda più ha fatto soffrire. Sono stati sequestrati anche loro, come te, più di te. Sequestrati “non c’è altra parola disgraziatamente per definire questa emorragia dell’anima che hanno subito aspettando una buona notizia. A loro, i terroristi, nessuno chiederà conto. A te si”. Questi diversi commenti, così seri, così meditati, fanno riguardare come insopportabile melassa retorica la maggior parte delle dichiarazioni che politici, editorialisti, filosofi, psicologi, cattolici e laici, di destra e di sinistra hanno rilasciato soprattutto per questioni di “visibilità”, per “testimoniare” la loro etica sociale e attaccare quella degli avversari.
Il problema, però, non è Aisha con “la divisa islamista che non ha nulla di somalo” (Maryan Ismail): è una uniforme da nazismo islamico, che lei ha voluto (o dovuto?) ostentare, rifiutando gli abiti occidentali messi lì a disposizione sull’aereo del ritorno. Il problema è un altro: perché non possiamo fare come gli Americani o altri Paesi che non pagano un centesimo per il rilascio di un rapito e che per questo non vengono più rapiti? Non mi convince la risposta “buonista, santegidiana o boldriniana che sia: “Per noi italiani la vita umana è sacra e non c’è ragion di Stato che tenga quando è possibile salvarne una”. Si direbbe a Napoli : “ma faciteme.: o favore!”.
Del principio non si tenne alcun conto quando fu in gioco la vita di Aldo Moro: per non subire il ricatto delle Br – che chiedevano uno scambio di prigionieri – si lasciò assassinare una delle figure più eminenti della Prima Repubblica… Se da allora la linea della fermezza venne abbandonata è perché non ne uscì affatto rafforzato il “sentimento dello Stato”. Sennonché l’appannamento di quest’ultimo era nella logica delle cose: una political culture che non stava “né con lo Stato né con le Br” non poteva sentire il dilemma – al centro della tragedia greca – della scelta tra due Valori egualmente alti e venerabili.
In realtà, quando il conflitto è apparente giacché, da un lato, c’è qualcosa in cui non si crede – lo Stato, appunto – e, dall’altro, c’è un corpo vivente, una persona reale che soffre ed è in pericolo di vita, il piatto della bilancia pende necessariamente da una parte. Cosa può mai significare dire Italyfirst, salvare la dignità nazionale, non permettere a una banda di assassini di tenere in scacco una Repubblica democratica, non consentire ai tagliagole di comprare armi con cui versare altro sangue, sei simboli della collettività (la bandiera, l’esercito) sono fantasmi dcl passato?
Non è la bontà d’animo ma l’ateismo istituzionale a farci scegliere tra la vita e i Principi. Uno stimato giornalista cattolico alla domanda se 4 milioni di euro dati ai terroristi non fossero un’enormità, ha risposto: “Ma con tutti gli sprechi della Pubblica Amministrazione stiamo a preoccuparci dell’entità del riscatto…!” Appunto. La nostra bontà d’animo non nasce dal sacrificio di un valore sull’altare di un altro ma dal fatto che ne conosciamo altri che non sia la vita nella sua nudità. Ci mancherebbe pure che uno Stato sprecone si mettesse a fare economie su una povera ragazza in mano ai carnefici della fede.
Dino Cofrancesco, Il Dubbio 17 maggio 2020