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Coronavirus, i talebani della scienza non sono scientifici

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Bouvard ordinò il menu. Pécuchet temeva che le spezie potessero incendiargli il corpo, il che divenne oggetto di una discussione medica tra i due. Subito dopo glorificarono i vantaggi della scienza: quante cose da conoscere, quante ricerche – ah se solo si avesse il tempo”.

Per i due personaggi della fantasia del sublime Gustave Flaubert, che nel romanzo omonimo di cui sono i protagonisti, ultima sua opera incompiuta e uscita postuma nel 1881 un anno dopo la morte, incarnano la stupidità e la superficialità del “secolo del progresso”, la scienza è davvero una fede, anzi ha sostituito quella cristiana, diventando una fede ancora più robusta, indistinguibile, proprio perché certa e “scientifica”. Nel romanzo, così come nel celebre Dictionnaire des idee reçues che avrebbe dovuto fargli da appendice, il conservatore Flaubert si prende gioco della credenza nella scienza e nel progresso, due parole chiave dell’epoca in cui trionfava il positivismo.

Per fortuna poi, a partire dalla fine del XIX secolo, la scienza, da Heisenberg a Einstein, e poi la filosofia della scienza, da Karl Popper a Imre Lakatos a Paul Feyerabend, hanno messo in discussione l’idea di una scienza oggettiva, incontrovertibile, “fattuale”, che prenderebbe lo statuto di Verità Assoluta, a cui possono accedere solo coloro che entrano nel Gran Tempio del Sapere come si diceva, con linguaggio a metà tra il positivistico e il massonico, nella seconda metà dell’Ottocento.

Con il Novecento la scienza è diventata “falsificabile” (per Popper solo una teoria scientifica lo è), dipendente dai “programmi di ricerca”, che a seconda si scelga l’uno o l’altro portano a risultati diversi, o addirittura secondo Feyerabend da “trucchi” che lo scienziato mette in opera. Secondo John Turri, uno dei più importanti filosofi della scienza viventi, la scoperta scientifica è frutto dell’intreccio di “azioni”, di “credenze” e di “asserzioni” verbali.

Quindi è un po’ desolante il dibattito pubblico sul ruolo della scienza nei giorni del Coronavirus, rimasto fermo ai tempi del positivismo, con tanti piccoli e nuovi Bouvard e Pécuchet. Tra chi ritiene che la “scienza” sia “antidoto alle paure irrazionali” (ma non lo sono tutte le paure?) a chi pensa che il governo debba farsi guidare dalla “verità scientifica” anzi proprio dagli scienziati, a chi si allarma per la diversità di posizioni tra di loro (normale: nessuno studioso di nessuna disciplina la pensa mai come un altro) frutto della “irrazionalità” e magari del “populismo”.  Ma si, ritorniamo alla verità e magari alla scienza di Stato, come nell’Urss di Stalin dove vigeva solo, in biologia, la teoria di Lissenko.

Il grottesco però l’ha toccato, sempre sul tema della epidemia, la più ganza e chic della sinistra mondiale, Alexandra (Ocasio-Cortez) che ha accusato il vicepresidente Pence, incaricato di coordinare le risposte al diffondersi del virus, di “non credere (believe) nella scienza”.

Dove quel che colpisce è proprio il verbo credere. Per i progressisti, senza più fede, senza più religione, senza più un radicamento all’interno della propria nazione, la sola fede rimasta è quella, appunto, nel progresso, che non può che sfociare in quella della scienza. Che però, nella loro parole, diventa una sorta di religione azteca, indiscutibile, granitica, con i  sacerdoti, gli scienziati, che of course devono essere tutti di sinistra (la scienza è di sinistra, disse un’attuale senatrice a vita) e devono fornire ai politici la Verità Assoluta: a questi ultimi il ruolo di attuare i sacrifici umani sulle piramidi.

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