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Cosa diceva un magistrato sui pm-sceriffo e i “giudici analfabeti”

La riforma della giustizia? Ben venga la separazione delle carriere. Lo spiegava bene 13 anni fa Edoardo Mori

riforma giustizia © sergeitokmakov tramite Canva.com

Intervenendo giovedì mattina ad Agorà, talk in onda su Rai3, Antonio Tajani ha spiegato con estrema chiarezza uno dei punti nodali che definiscono, a mio modesto parere, la correttezza della riforma della giustizia proposta dall’attuale maggioranza di centro-destra: “Oggi il magistrato che fa l’accusa e quello che fa la difesa sono parte della stessa famiglia. Di fatto – ha aggiunto – non c’è una vera indipendenza, sono comunque persone che hanno lavorato insieme. Possiamo fare qualcosa contro i magistrati noi di Forza Italia se abbiamo candidato come capolista in Sicilia e in Sardegna Caterina Chinnici? Nessuno attacco ai magistrati, ma tutela per i cittadini di essere giudicati in maniera equilibrata”.

Quindi, sebbene la tanto contestata separazione delle carriere, che sta creando una vera e propria crisi di nervi tra la sinistra manettara, di per sé non è sufficiente a rendere infallibile il nostro sistema giudiziario, tuttavia essa tende ad eliminare quella sorta di spirito di solidarietà che si sviluppa in qualsiasi categoria professionale e che, in questo delicatissimo settore, nel quale si decide la sorte delle singole persone, non dovrebbe mai esistere.

Lavorando spesso gomito a gomito con i magistrati requirenti, i giudici veri e propri sono inconsciamente portati a solidarizzare con i propri colleghi della pubblica accusa. E questo, se permettete, non è una premessa rassicurante per qualunque imputato o semplice indagato, il quale avrebbe il sacrosanto diritto di essere valutato in tutti i passaggi dell’iter processuale da un giudice realmente terzo.

D’altro canto che ci sia l’impellente necessità di una riforma con la R maiuscola si deduce chiaramente in una intervista rilasciata a Stefano Lorenzetto, per il Giornale, dall’ex magistrato Edoardo Mori circa 13 anni fa, ma che ancora oggi risulta di una drammatica attualità. Questi alcuni passaggi delle sue dichiarazioni che, soprattutto a noi garantisti, appaiono piuttosto inquietanti: “Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm. Di norma – prosegue Mori – ai giudici non viene neppure comunicato se le loro sentenze sono state confermate o meno. Un giudice può sbagliare per tutta la vita e nessuno gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità diabolica nel suddividere le eventuali colpe in tre gradi di giudizio. Risultato: deresponsabilizzazione totale. Il giudice di primo grado non si sente sicuro? Fa niente, condanna lo stesso, tanto – ragiona – provvederà semmai il collega in secondo grado a metterci una pezza. In effetti i giudici d’appello un tempo erano eccellenti per prudenza e preparazione, proprio perché dovevano porre rimedio alle bischerate commesse in primo grado dai magistrati inesperti. Ma oggi basta aver compiuto 40 anni per essere assegnati alla Corte d’appello. Non parliamo della Cassazione: leggo sentenze scritte da analfabeti”.

Forse anche da questa impietosa descrizione si può comprendere perché è stato legalmente possibile realizzare una intercettazione mostre, durata ben 4 anni, ai danni di Giovanni Toti. Roba a mio avviso inaccettabile in un Paese civile e che ci richiama alla mente la realtà angosciante dei paesi del vecchio blocco sovietico descritta nel film “Le vite degli altri”.

Claudio Romiti, 31 maggio 2024

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