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Cosa nasconde il termine “sovranismo”

La recensione del nuovo libro di Alessandro Campi “Il fantasma della nazione”

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Siamo proprio sicuri che il termine “sovranismo”, pur non avendo una dignità concettuale ed essendo in fondo generico e approssimativo, sia servito ad indicare qualcosa di brutto e sbagliato e che vada pertanto aborrito e dimenticato? E siamo proprio sicure che brutte e sbagliate siano state, a destra, le politiche seguite da Salvini e Meloni? L’idea di nazione è non da oggi al centro degli interessi di Alessandro Campi, che insegna Storia Contemporanea a Perugia e che è sicuramente una delle più attive personalità del dibattito pubblico nazionale. Campi ritorna ora sul tema in un pamphlet appena uscito per i tipi di Marsilio, significativamente intitolato Il fantasma della nazione, Per una critica del sovranismo (pagine 224, euro 15).

Ovviamente, è soprattutto il sottotitolo del volume che farà discutere, in quanto il termine “critica”, che pure è etimologicamente avalutativo indicando il momento della scelta fra diverse opzioni, nel linguaggio comune e giornalistico ha assunto col tempo una connotazione negativa se non propriamente dispregiativa. Che è quella che fa propria Campi? Prima di arrivare al punto, Campi ci accompagna come per mano attraverso le vicissitudini storiche dell’idea di nazione, di cui offre in qualche modo hegelianamente una fenomenologia. La sua è una storia in cinque tappe che si dipana dall’idea che di nazione che aveva la destra storica fino a quella che ne ha avuto il “nazional-populismo” (e che è in sostanza ciò che viene altrimenti identificato col nome di “sovranismo”).

Senza dilungarci troppo sui singoli passaggi, possiamo dire che quello che vien fuori con chiarezza dal libro è la plurivocità semantica del concetto di nazione. Il nazionalismo aggressivo e sciovinista, detto altrimenti, è solo una delle tante declinazioni di cui è passibile l’idea di nazione. Il nesso fra nazione e nazionalismo aggressivo non è pertanto stretto e necessario, come vorrebbe far credere una certa vulgata di sinistra. Anzi, il nazionalismo democratico e liberale, come mostra anche il caso italiano del Risorgimento, è stato spesso all’origine dei sistemi costituzionali e rappresentativi, rappresentando una sorta di combustibile immesso nella macchina del motore delle società liberali allo stato nascente. Non può dirsi nemmeno che il nazionalismo ragioni in termini esclusivisti, come meglio di tutti ci ricorda l’esempio di Giuseppe Mazzini. Nel pensiero del patriota genovese, infatti, l’unità e l’indipendenza dell’Italia si inseriva in un più ampio orizzonte europeo, perorando la libertà e l’autodeterminazione per tutti i popoli del contenente, gli uni interdipendenti dagli altri (come è noto all’associazione della Giovine Italia Mazzini affiancò in quest’ottica quella della Giovine Europa).

Arrivando finalmente al sovranismo, il discorso di Campi si fa meno obiettivo. Prima di tutto non convince l’inserimento del sovranismo nella più ampia (e anch’essa molto equivoca) categoria di populismo. L’insistenza sulla sovranità nazionale di una parte dei Cinque Stelle nella prima fase della loro ascesa fu infatti prettamente strumentale, come la loro evoluzione successiva ha ampiamente dimostrato. Di sovranismo si è invece parlato con qualche piccola ragione per la Lega e Fratelli d’Italia, ma sinceramente il termine-concetto è stato imposto alla destra dal pensiero progressista, con un senso del tutto delegittimante come dicevo (e da chi si era dimenticato che proprio a sinistra era nato in Francia qualche anno prima un movimento di estrema sinistra che sovranista si era per l’appunto autodefinito).

La destra italiana ha però accettato la sfida e ha provato a dare un contenuto positivo a quel termine. Gli intellettuali che si sono cimentati nell’impresa (da Gervasoni a Cofrancesco, da Becchi a Giubilei, da Capozzi a Valditara) sono però addivenuti a conclusioni fra loro molto diverse, se non contraddittorie, tanto che a un certo punto il termine è stato sostituito da quello più classico di conservatorismo. Se però il termine non era utile da un punto di vista concettuale, non si può certo dire che esso non conservi un valore euristico. Esso serve cioè a indicare un periodo storico in cui, dalla Brexit a Trump, da Salvini alla Meloni, la destra ha dato espressione politica al rifiuto popolare delle tendenze universalistiche, e quindi conformistiche e omologanti, assolutamente illiberali, messe in moto dalla globalizzazione.

Se oggi quell’estremismo è andato molto depotenziandosi a destra è perché, cambiato lo scenario, molte di quelle istanze sono state integrate dal vecchio potere. E se ciò è avvenuto, lo si deve anche a quel sovranismo che, seppur non riproponibile, non va rinnegata. Un punto questo che non sempre, nel libro di Campi, è ben chiaro.

Corrado Ocone, 22 febbraio 2023