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Cosa non torna nella storia dei verbali desecretati

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Tanto tuonò che piovve. Sì, ma una di quelle pioggerelline estive che alla fine fanno salire l’afa più di prima. Così potrebbe sintetizzarsi la vicenda che ha portato alla desecretazione dei verbali del Comitato Tecnico Scientifico che hanno fatto da base alle decisioni più controverse prese dal governo, e direttamente dal Presidente del Consiglio con i suoi decreti speciali (i famigerati Dpcm), nei giorni dell’emergenza del Coronavirus. Il fatto è che la desecretazione è solo parziale, interessando cinque soli verbali, fra l’altro dai contenuti per lo più già noti, e di ciccia ce ne è davvero poca.

I primi commenti si sono focalizzati sul fatto che nel verbale del 7 marzo il Comitato suggerisse un lockdown totale solo per le regioni e le zone più colpite, concependo una sorta di doppio livello di chiusure. Il fatto che sia poi stato deciso altrimenti non è in sé criticabile più di tanto, a mio avviso: in quella prima fase si brancolava ancora nel buio e una preoccupazione di più, se fosse stata limitata nel tempo, poteva anche starci. Alla fine i consulenti consigliano, ma è il potere esecutivo che decide. Dovrebbero poi essere il parlamento e i cittadini al momento del voto a dare un giudizio politico sul suo operato. Che poi il governo abbia escluso il secondo e che in Italia il voto popolare sia diventato quasi un tabù, è un altro discorso che giustamente merita attenzioni e critiche severe come ogni giorno nel nostro piccolo facciamo. Il fatto che fra i verbali mancanti ci siano quelli che portarono a non fare delle zone di Alzano e Nembro “zone rosse” è invece abbastanza grave, alla luce delle conseguenze che quella decisione ha avuto su tante vite umane. Non so come il governo motiverà questa omissione, ma sarebbe opportuno che la questione non passasse in predicato.

Più che sui contenuti, credo però sia opportuno concentrarsi sulle modalità con cui queste carte sono state chieste prima e rilasciate poi dal governo. A chiederle sono stati tre avvocati (Enzo Palumbo, Andrea Pruiti Ciarello e Rocco Mauro Todero), per conto della Fondazione Luigi Einaudi, non quella prestigiosa di Torino (che fa capo direttamente alla famiglia dello statista liberale e conserva le sue carte) ma quella più politica (un tempo costola del Partito Liberale) che ha sede a Roma. Sicuramente perciò, da un punto di vista comunicativo, la Fondazione che porta (degnamente?) il nome del primo Presidente della Repubblica ne esce vincente. D’altronde quello della “trasparenza” non è un principio liberale classico? Non si tratta però di una partita a somma zero perché anche, e ancor più, il governo fa la sua bella figura: ha prima lasciato “sbraitare” noi poveri oppositori, e poi, ancor prima che la questione fosse presa in riesame dal Consiglio di stato il 10 settembre, ce li ha spiattellati in faccia. Peccato che siano parziali, la macchina comunicativa si è già messa in moto per venderseli come un atto di generosità e sensibilità (per usare il termine che il presidente della Fondazione, anch’egli avvocato, Giuseppe Benedetto, ha utilizzato sui social ieri sera per ringraziare Giuseppe Conte).Che poi si tratti di una “casalinata”, fumo negli occhi o pioggerellina se preferite, chi lo andrà a sottolineare se non i soliti quattro gatti quattro degli intellettuali di opposizione, prevenuti e “invidiosi” per principio?

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