Chissà se il creatore di questo sito sapeva di star firmando la sua deliziosa condanna. Perché dopo che un evento all’esordio va così bene, diventa impossibile lasciarlo lì come un caso isolato, l’eccezione di un pretesto. Per cui il povero Nicola, che sul serio s’è fatto in 18 per curare tutto prima e durante e poi, dovrà già pensare alla prossima edizione di La Ripartenza, in scena lo scorso fine settimana al Petruzzelli di Bari.
Economia, lavoro, ripartenza
Davvero non è una storia di tutti i giorni un simile parterre di ospiti, di testimonianze, di situazioni nel segno di un solo soggetto, un solo giornalista anche se dietro c’era la macchina di un’organizzazione che non ha lasciato niente all’imprevisto, mai. Sono di quelle occasioni che, al di là del prestigio, dello sfilare di protagonisti, del peso degli sponsor fanno capire alcune cose da dentro; per esempio, che la retorica sull’imprenditore che comunque vada la sfanga perché è ricco e strizza i lavoranti e olia le maniglie dei fisco, ha rotto i santissimi per la sua superficialità smargiassa. Perché poi ti capita di parlare con sir Rocco Forte, quello degli hotel di lusso, e lì ti rendi conto del rischio come propellente, della esposizione con le banche, dell’ottimismo che non è il vezzo dei privilegiati ma una componente essenziale, non rinunciabile dell’attività ed è con quell’ottimismo che sa di pazzia che puoi aprire nuovi resort, creare altro lavoro mentre il lavoro evapora dappertutto, tenere su il nome di un’Italia che ha bisogno anche di situazioni stellari per ospiti stellari. E sir Rocco, a trovartelo a cena, è personaggio notevole perché accorcia le distanze con estrema naturalezza ma tu sai, senti che viaggia ad altre altezze, che i suoi impegni, i suoi pensieri vanno oltre la divagazione del momento.
Ma non è di questo che parliamo qui oggi. Parliamo del momento più alto, almeno per chi scrive, nella girandola di situazioni, di atmosfere, di spunti davanti a un pubblico che il Petruzzelli lo riempiva per metà ma solo per imposizioni dal cielo oscuro delle regole pandemiche. Se no non sarebbero bastati i millecinquento posti canonici.
La performance di Sgarbi
È stato un lampo di grandezza cominciata in sordina, come quasi sempre succede. Vittorio Sgarbi, in ritardo come suo solito, a lungo atteso, si materializza infine dal fondo della platea; avanza curvo, pallido e pesante, segnato, trasfigurato: un vegliardo con addosso il peso di una vita improvvisamente troppo maligna e troppo massiccia. Ma sale sul palco e ritorna Sgarbi. Divaga, come al solito quando deve attaccare una lectio magistralis; sfarfalla ma la lezione è già partita e tu non lo sai ma lui sì; improvvisa, ma per finta, da paraculo, perché sa benissimo cosa andrà a raccontare e perché; irride, esalta se stesso, si celebra, si concede sprazzi di disprezzo politico, porta in giro il pubblico, sospeso per le sue avventure artistiche in lungo e in largo per il Paese, Vittorio è un don Chisciotte che “salì sul destriero e partì per tutte le direzioni” e ad ogni approdo lascia un segno, fatto di mostre, di recuperi, di scoperte, di tele rinvenute nel modo più mirabolante, di veri che sembrano falsi e invece sono veri e lui passa dall’infamia del sospetto giudiziario al trionfo della riabilitazione retrodatata: avete visto, stronzi, avevo ragione.
Caravaggio, un grande italiano
Poi, senza sapere come, ti ritrovi dentro Caravaggio. Dentro i suoi dipinti di carne e di sangue, dentro la sua stessa carne e sangue e Sgarbi il folle ti sta spiegando con parole accessibili e voce sapientemente modulata – circa una dèpense beniana – ti sta insegnando che l’unicità del Merisi non è nel luogo comune al discount della sottocultura, il maledettismo, le Madonne col volto delle puttane, i malacarne crocifissi nel ruolo di santi, e “la luce, ah quella luce, Caravaggio è luce”, no, il Critico ti mostra come la non replicabilità del Milanese stia nella crudezza che si fa essenzialità e quindi essenza; a un certo punto recupera la natività del Rubens, che qui nel Fermano ci esce dagli occhi e dalle orecchie perché è gloria patria, e la giustappone: un Caravaggio psichedelico, ma l’originale ha il dramma dell’infinito, è un vortice di sensazioni cannibali.