Da Caravaggio a… Pasolini
E non basta, sai. Perché la magia viene adesso, con Pasolini che è Caravaggio, ma che sta farneticando Sgarbi? È impazzito? No, è proprio così, il giovane letterato, appena spretato dal PCI per indegnità moralistiche, viene folgorato da Roberto Longhi sulla via Padana, la via del Merisi e trecento anni dopo subisce un transfert ch’è un trauma. Pasolini diventa Caravaggio, ne sposa la fatalità dell’autodistruzione. E qui Sgarbi ha buon gioco nel mostrare qualcosa di spaventoso, l’eterno ritorno di un destino, le coincidenze esoteriche che, chi lo sa, forse sono già scritte, sono già dipinte e ogni nostro sforzo non ha senso a resistere. Trecento anni prima, Caravaggio aveva raffigurato i ragazzi di vita di Pasolini: l’Amor Vincitore è Pino Pelosi, l’assassino; il Bacco emaciato è Ninetto. Non sono somiglianze, sono proprio quelli, parlano i ritratti a fianco delle foto. Un fiume di vita e di morte lungo trecento anni e non è cambiato niente, il corsaro dell’arte e lo scrittore dilaniato mescolano la loro carne guasta e sofferente. In platea si alza come ondata un brivido che corre veloce per le pelli, un virus di cui nessuno vuole il vaccino.
Il segreto di uno spettacolo grandioso
“Caravaggio è un artista contemporaneo, nasce nel 1951”, va di paradosso Vittorio. Quando Pasolini lo scopre e lo possiede e ne viene posseduto fino all’esito fatale in uno squallore lunare di borgata, “’Che se n’annamo a Ostia?’ fece il Riccetto. Lì, la notte di Ognissanti del 1975, c’era un Riccetto che non voleva andare oltre, e reagì macellando. “E bulli e belli, criminosi e poveri, bravate al danzo e bestemmiare inutile” dice la canzone di Renato Zero dedicata a PPP. Vuoi o non vuoi, è storia nostra e parte dal 1600. E potrai anche dire che è repertorio, che non è la prima volta che Sgarbi racconta questa storia sinuosa e insinuante, già ce ne informava Alessandro Gnocchi in una splendida cronaca dello scorso ottobre sul Giornale. Ma ci sono cose che diventano spettacoli, e uno spettacolo, se è grandioso, è sempre la prima volta che lo vedi. Perché è la prima volta che accade. È anche l’ultima: non si ripete mai davvero.
Dopo, è solo trionfo annunciato, Sgarbi è uscito da sé per rientrare, quasi docile, nella sua fatica di uomo arrancante e ferito ma mai domo. C’è la processione per il suo libro, per un altro selfie e lui non si nega a nessuno con una amabilità inedita, perfino tenera, forse anche figlia del vulnus: “Ho fatto questo libro in lockdown perché era il modo migliore di mandare a fare in culo in cancro”, mi dirà più tardi. L’ha spuntata, ma sul volto ha i segni della guerra. Dicono tutti che Vittorio Sgarbi è una rockstar perché è incontenibile, anche per se stesso, dice le parolacce, polemizza, fa casino, non ha regole, stravive e nessuno capisce davvero chi sia. Non si rendono conto che lui è una rockstar per un motivo molto più semplice. Perché morirà per quello che fa. Morirà per quello che lo ha fatto esistere. Morirà per la sua vita, che l’ha consumato esaltandolo, l’ha avvelenato d’ossigeno incandescente. Sgarbi morirà addosso a un quadro e diventerà dipinto egli stesso e sarà la morte di chi non morirà più.
Max Del Papa, 25 luglio 2021