Esteri

Cosa resta di Henry Kissinger

© Furchin tramite Canva.com

Oggi non esiste nessun erede di Henry Kissinger. Nessuno che ne abbia raccolto l’eredità politico-filosofica. Non sappiamo se questo sia o no un bene, certamente la crisi delle relazioni internazionali e i reflussi della globalizzazione incontrollata sono una conseguenza della mancanza di una Teoria alla base dell’agire diplomatico. Kissinger aveva attinto a molti teorici della politica nella sua carriera intellettuale e professionale: Leo Strauss, Karl Lowith, Spinoza (vedi la sua concezione della storia e della morale), Machiavelli, il principe di Metternich. Ma soprattutto da Nicholas Spykman.

Questo nome risulta ancora oggi perlopiù ignoto alla maggioranza degli attori politici. Una mediocrità da cui discendono molti dolori di questo tempo. Kissinger conosceva bene Spykman, teorico delle relazioni internazionali e fautore di un pensiero che fa della geografia politica la chiave di tutto. Non a caso egli era allievo di Mackinder, geografo britannico a cui si deve la fondamentale divisione del mondo in hearthland, ossia il grande medio-oriente che va dalla penisola arabica all’Afghanistan, e rimland, ovvero quella fascia costiera che partendo dall’India circonda tutta l’Eurasia. Il vero “cuore del mondo” secondo Spykman, luogo dove sono sorte e hanno prosperato nei secoli le più grandi civiltà del mondo. Soprattutto visto l’accesso al mare.

Usava dire infatti: “Chi controlla l’hearthland controlla l’Eurasia, chi controlla il rimland controlla il mondo”. Da queste aree passa tutta la ricchezza del globo e l’egemonia sulle stesse consegna le chiavi del mondo alla potenza egemone. Kissinger l’aveva capito. Il contenimento dell’influenza sovietica in Vietnam, in medio-oriente e nel mediterraneo è in parte figlio di questa visione. Oggi tutto sembra venire meno. Quella stessa Cina che Kissinger aveva portato nel consesso del mondo libero per sottrarla alla morsa dell’URSS è divenuta una potenza con forti proiezioni geopolitiche che, sotto Xi Jinping, hanno assunto tratti aggressivi.

Il presidente cinese cerca di sottrarsi all’accerchiamento delle potenze filo-americane che gli “precludono” l’accesso al pacifico (Giappone, Vietnam, Corea del Sud, India) costruendo una rete di infrastrutture all’interno dell’hearthland per arrivare all’Europa. Deng Xiaoping sosteneva che solo conquistando il vecchio continente con la sua ricchezza si sarebbe potuto assurgere al rango di potenza mondiale, sfidando gli Usa. La cosiddetta Via della Seta non è altro che questo. Un tentativo di egemonizzare il cuore dell’Asia attraverso strade, ferrovie, porti e infrastrutture da costruire con capitali cinesi (a debito) dai singoli stati.

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L’Italia, unico paese europeo ad aver aderito, si è sfilata da questa trappola. Il mondo occidentale (leggi Usa) sta provando a rispondere con la cosiddetta Via del Cotone. Essa consiste in due grandi collegamenti, uno ferroviario che unisce Emirati Arabi, Giordania, penisola araba fino ad Israele, e uno marittimo che collega l’India ai paesi del Golfo. Di centrale importanza sono i cavi sottomarini che passano sotto alla penisola indiana per la trasmissione di dati. Un progetto straordinario che unisce, per la prima volta nella storia, lo stato ebraico e i suoi acerrimi negatori, gli arabi. Ma soprattutto un modo per contrastare la crescente egemonia cinese sui paesi del “sud” del mondo.

Alcune voci autorevoli ritengono che sia proprio il piano chiamato Via del Cotone ed il suo progetto politico “inclusivo” ad aver innescato la spirale di violenza di Hamas, sostenuta dall’Iran sciita e nemico mortale dei sauditi, contro Israele. Nel frattempo, il Venezuela filo-russo e riempito di soldi cinesi cerca di annettere militarmente una regione dell’America latina ricchissima di idrocarburi, agitando la bandiera dell’anti-colonialismo. Come se Maduro fosse un nuovo Simòn Bolivar. Il tutto nel silenzio dell’occidente, che tanto si sgolò nel denunciare i brogli dei referendum russi in Donbass. Con l’adombrarsi della dottrina dei neoconservatori americani non rimane più nulla del lavoro di Kissinger. Le sue teorie sul contenimento e sull’interventismo per tutelare l’egemonia (non il dominio si badi bene) americana sul mondo sono sostituite dalle ciance sui diritti umani e sul rispetto dei popoli. Come se potesse esistere democrazia senza ordine sociale.

Tutto sembra precipitare. Nei suoi ultimi mesi di vita il grande diplomatico aveva messo il mondo in guardia dal caos che andava profilandosi. Un caos che assume sempre più la forma di un dragone e che viene dall’est. Ora molto più aggressivo poiché spaventato e in difficoltà su molti fronti.

Francesco Teodori, 10 dicembre 2023