In Ucraina si intravedono i primi spiragli di tregua. Non solo o non tanto perché alcune truppe russe si stanno allontanando da Kiev. Non per i cento veicoli militari rientrati in Bielorussia dall’Ucraina (anche dalla zona di Chernobyl). Non per la promessa di “riduzione” delle operazioni fatta da Mosca. Né per la presunta mediazione di Mario Draghi nella sua telefonata col Cremlino. Ma perché le trattative in corso su più fronti, in particolare quello turco, sembrano almeno aver aperto una breccia. Certo: Putin ha confermato al nostro premier che la situazione non è ancora matura per un cessate il fuoco. Ma rispetto a qualche giorno fa, quando impazzavano i combattimenti si parlava di squadroni incaricati di uccidere Zelensky, la situazione sul campo è sicuramente cambiata.
A vantaggio di chi? Difficile dirlo con certezza. Mosca intende concentrare i suoi sforzi sul Donbass, magari creando una sorta di corridoio che dalla Crimea porti alle due repubbliche separatiste includendo Mariupol. Odessa per il momento vive una mezza pace armata, ma teme l’invasione da parte delle navi ormeggiate al largo: la caduta della città costiera significherebbe per Kiev perdere ogni sbocco sul mare. E per la Russia governare tutto il commercio marittimo locale, in particolare di grano, mais e olio di semi di girasole. Di cui l’Ucraina è grande produttrice.
Fallito il blitzkrieg, sempre che Putin l’abbia davvero tentato, ora non resta che capire quale obiettivo minimo si è posto il presidente russo. Molto dipenderà dalle mosse del Cremlino e dalle concessioni che è disposto a fare. Ma non è l’unico aspetto da tenere in considerazione. Molti analisti si sono infatti spericolati nel chiedersi quali siano le condizioni che permetterebbero a Putin di considerare “vittoriosa” la sua operazione speciale in Ucraina: basta il Donbass? Serve Mariupol? Vuole anche Odessa e la parte di Ucraina ad Est del Dnepr? Domande legittime, che però bisogna porre anche alla controparte. In particolare, a Zelensky.
Cosa può permettersi di perdere, Kiev? Può accettare la neutralità, magari garantita da una sorta di “piccola Nato” di cui farebbero parte alcuni Paesi tra cui l’Italia. Può anche dichiarare ufficialmente di non voler entrare nell’Alleanza Atlantica. E volendo potrebbe anche accettare la smilitarizzazione parziale. Diverso il discorso su Crimea, Donbass e Mariupol: su questo punto si sono arenati i negoziati, benché Kiev abbia proposto di parlarne per i prossimi 15 anni. A chi spetta fare un passo indietro? L’ex ambasciatore italiano in Iraq, Marco Carnelos, è convinto che il presidente ucraino si stia “dirigendo verso un autodistruttivo punto di non ritorno”: “Che cosa è successo a Zelensky che era Stato eletto proprio con una programma elettorale mirante a trovare un’intesa con la Russia?”.
Da qualche giorno, infatti, la posizione di Zelensky “appare sempre più oltranzista sulla pelle dei propri cittadini”. Secondo Carnelos è ormai evidente che Crimea e Donbass sono perdute, così come “probabilmente anche il Sud del Paese”. Perché allora non accettare la realtà dei fatti e firmare un armistizio? “Che senso ha prolungare l’agonia?“, insiste l’ambasciatore in una lettera a Dagospia. “É Zelensky che ha subito una metamorfosi? È condizionato (minacciato) da oltranzisti interni? Oppure è etero-diretto da Washington e Londra che hanno interesse – adesso che hanno visto le debolezze russe – che Mosca sanguini e si impantani il più possibile in Ucraina”. In fondo solo un giorno fa il Times è arrivato a chiedere ai governi di Usa e Gran Bretagna di armare ancora Kiev affinché “finisca il lavoro” e magari provochi quel “regime change” al Cremlino invocato da Biden.
“Ho la sensazione che qualcuno voglia combattere la Russia fino all’ultimo ucraino o, addirittura, fino all’ultimo europeo”, dice Carnelos. Un allarme già lanciato da Toni Capuozzo e da altri, subito però additati come “putinisti”. Occhio però a non tirare troppo la corda: “Zelensky – conclude l’ambasciatore – sta, forse inconsapevolmente, dirigendosi verso un autodistruttivo punto di non ritorno”.