di Paolo Becchi e Giuseppe Palma
Il Consiglio d’Europa (CdE) non è una istituzione dell’Unione europea, ma una organizzazione internazionale che promuove la democrazia, i diritti umani, il primato del diritto e l’identità culturale europea. Istituito nel 1949, ha sede a Strasburgo ed è composto da 47 Stati, tra cui tutti i 27 Paesi della Ue, più altri Stati come ad esempio il Regno Unito, la Svizzera, l’Albania e la Russia.
Il Consiglio, e più precisamente la sua Assemblea, adotta risoluzioni parlamentari che ogni Stato membro è poi libero di recepire attraverso gli strumenti previsti dagli ordinamenti costituzionali di ciascuno. Da ultimo, e più precisamente il 26 febbraio 2021, l’Assemblea parlamentare del Consiglio ha adottato la Risoluzione n. 2361 in tema di vaccini anti-Covid19.
I punti salienti della Risoluzione che qui ci interessano sono sostanzialmente due: gli articoli 7.3.1 e 7.3.2. Il primo statuisce che gli Stati devono “assicurarsi che i cittadini siano informati che la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno è politicamente, socialmente o altrimenti sottoposto a pressioni per farsi vaccinare, se non lo desiderano farlo da soli”, mentre il secondo raccomanda ai Paesi membri di “garantire che nessuno sia discriminato per non essere stato vaccinato, a causa di possibili rischi per la salute o per non voler essere vaccinato”. Si tratta di due temi fondamentali su cui tuttavia è caduto nel dibattito pubblico il silenzio tombale: 1. il divieto dell’obbligo vaccinale e delle pressioni per spingere i cittadini a vaccinarsi; 2. il divieto di discriminazioni nei confronti di chi non intende sottoporsi a vaccinazione.
A questo punto ci chiediamo come possano essere compatibili le norme della Risoluzione del Consiglio d’Europa con l’obbligo introdotto dal governo italiano con decreto-legge n. 105/2021, a partire dal 6 agosto, di possedere il cosiddetto “green pass” – valido 9 mesi – addirittura per sedersi all’interno di un bar, di un ristorante o di un cinema. Beninteso, non si tratta di un obbligo vaccinale in senso stretto (tanto è vero che per ottenere un green pass di 48 ore è sufficiente sottoporsi a tampone), ma esercita una forte pressione psicologica ed emotiva sui cittadini (espressamente vietata dall’art. 7.3.1. della Risoluzione) a sottoporsi a vaccinazione per non essere esclusi dall’esercizio dei più elementari diritti di cittadinanza (si pensi ad esempio al divieto di partecipare ai concorsi pubblici se non si è in possesso del green pass).
Si dirà che una semplice Risoluzione del Consiglio d’Europa non è vincolante per nessuno degli Stati che vi fanno parte, a meno che qualcuno non decida di recepirla attraverso gli strumenti previsti dai propri meccanismi costituzionali. Vero. L’Italia potrebbe recepire la Risoluzione, e attribuirne eventualmente forza di legge, attraverso una legge ordinaria adottata dal Parlamento (art. 80 della Costituzione), oppure attraverso un semplice ordine del giorno votato dalle Camere che però avrebbe un valore molto contenuto, quello di mero indirizzo politico nei confronti del Governo. Insomma, gli strumenti per recepire il Regolamento non mancano.
Al momento la Risoluzione è stata assegnata – sin da marzo – in ben tre Commissioni del Senato (affari esteri, politiche Ue e igiene e sanità), ma lì è rimasta, e nessun gruppo parlamentare si è mosso per accelerare l’iter di recepimento. Ovvio che manca la volontà politica. A questo punto Lega e Fratelli d’Italia – il primo scettico e il secondo contrario al green pass – potrebbero giocare d’anticipo e chiedere agli altri gruppi parlamentari di portare avanti e concludere l’iter di recepimento della Risoluzione prima del 21 settembre, ultimo giorno utile in cui le Camere possono convertire in legge (con o senza modificazioni) il decreto-legge n. 105 del 23 luglio 2021.