Abbiamo scritto più volte della follia fiscale derivante dalla nuova tassa sulla plastica. Essa entrerà in vigore dal primo luglio di quest’anno e sarà pari a 45 centesimi a chilogrammo. Vogliamo rendere la cosa più chiara e parlare di un caso concreto, che dimostra come chi fa le leggi, conosce poco il mercato. Chiuso nella propria stanzetta al ministero, non sa cosa avviene, che so, a Merate in Brianza, dove tre donne portano avanti una bellissima azienda che produce imballaggi. Di plastica, appunto.
Ve lo raccontiamo, con la speranza che i nostri politici, prima di imporre un nuovo balzello capiscano quanto esso possa compromettere il funzionamento di quella macchina delicata che si chiama economia produttiva.
La nostra media azienda brianzola ha un buon fatturato, di qualche decina di milioni di euro, e margini compressi, come chiunque lavori in un mercato concorrenziale. Produce, tra l’altro, quella pellicola trasparente, azzurrognola, con la quale si imballano gli elettrodomestici. Uno dei suoi clienti (è una storia reale) è la Whirlpool. La stessa multinazionale che tra qualche mese chiuderà il suo impianto produttivo di Napoli, posto che esso perde un paio di milioni al mese. Troppo anche per loro, dicono i manager dell’azienda del bianco. Ma questo è un altro discorso.
Torniamo in Brianza. La nostra impresa della plastica ha avuto l’ordine dalla Whirlpool di non fornire più la plastica alla fabbrica napoletana. Non tanto e non solo perché essa è destinata a non produrre più, ma anche perché la multinazionale ha dirottato gli imballaggi italiani tutti alla filiale polacca. È normale, d’altronde. Poniamo che per ogni lavatrice sia necessario un chilo di plastica per proteggerla. Ciò comporta più o meno un costo di un euro. Al quale però dal mese di luglio si dovranno aggiungere 45 centesimi di tassa. Il che vuol dire un incremento rilevantissimo. Se al contrario la nostra ditta brianzola fornisce la medesima imbracatura di plastica alla fabbrica polacca, ebbene il costo resta di un euro. La tassa infatti si paga solo per le produzioni fatte in Italia.
Avete capito bene: una roba da pazzi. Si incentivano le imprese italiane e non solo a delocalizzare la produzione: non solo per i vantaggi competitivi su fisco e lavoro che molti Paesi comunitari offrono, ma ora anche per il costo degli imballaggi in plastica. Fino a quando, ovviamente, anche in Polonia non cercheranno di produrre in casa l’imballaggio, grazie a costi inferiori a quelli italiani, compromettendo centinaia di imprese della plastica identiche a quella nostra.
Una follia economica, soprattutto per un paese che resta, grazie al Cielo, ma non ai politici, il secondo polo produttivo d’Europa. Se poi parliamo di un imbottigliatore, come quello della Coca Cola, beh, allora l’incentivo a scappare è doppio. Oltre al costo della plastica, si deve aggiungere anche l’aggravio sullo zucchero. È perfettamente razionale che la nostra più importante imbottigliatrice italiana stia pensando di spostare un pezzo della sua produzione in Albania.
Quanto costa al sistema Paese, in termini di minori investimenti, più disoccupazione, meno incentivi a produrre, un set di tasse così distorsive? Non c’è una imposta giusta, al livello a cui siamo arrivati. È ovvio. Ma queste imposte su chi produce hanno il micidiale effetto di dispiegare i propri aspetti negativi nei prossimi anni: quando, chi ci governa oggi, si spera non ci sarà più.
E coloro che ci governeranno domani, non avranno la forza per cancellarli. Come è avvenuto con la Tobin tax e il superbollo di Monti, solo per fare un esempio di imposte distruttive per la nostra industria. E che sono ancora là.
Nicola Porro, Il Giornale 8 febbraio 2020