Così Meloni punta a conquistare il feudo di Di Maio

Scadono i vertici della società hi-tech ideata dai grillini. In uscita presidente e ad

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“No tech no party”. E infatti nulla è ancora partito su cyber, digitale e innovazione tecnologica nonostante, almeno sulla carta, il momento sia proprio quello giusto. Nessuna spinta propulsiva è arrivata dal Governo all’infuori, rebus sic stantibus, dello switch operato nell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale, dove un tecnico come Roberto Baldoni è stato sostituito in un baleno da Bruno Frattasi, un prefetto prossimo alla pensione, proprio in un frangente delicato come questo in cui i principiali siti governativi sono sotto costante attacco informatico.

Fortunatamente, per correre ai ripari, già nelle prossime settimane si presenterà l’occasione adatta per prendere l’abbrivio. Nell’indifferenza politica generale, è di prossima scadenza il CdA del FNI – Fondo Nazionale Innovazione – Cdp Venture Capital Sgr – nato con il tipico hype grillino sotto l’egida Di Maio, quando era ministro dello Sviluppo Economico, quale punta di diamante governativa per sostenere la crescita delle imprese italiane con vocazione innovativa. Peccato che durante l’immobilismo glaciale dell’era Scannapieco anche le politiche per l’innovazione sono state messe nel freezer.

I consiglieri in scadenza della cassaforte tecnologica italiana sono la quintessenza delle contraddizioni del periodo giallo-rosso. A partire dalla presidente Francesca Bria, un passato da ginnasta fatto di giravolte, piroette e capriole che le sono tornate certamente utili nella vita, ex pasionaria del G8 di Genova, ieri, insieme all’amico rivoluzionario Alessandro Di Battista e, oggi, all’altro amico Andrea Orlando, che l’ha catapultata nel CdA della Rai. Assieme al marito bielorusso Evgenij Morozov, è autrice di saggi “smart” sulla sovranità digitale dei cittadini, una voce sempre all’attacco del neoliberismo della Silicon Valley e delle sue startup verso le quali prova una vera e propria avversione, che però non le ha creato alcun imbarazzo quando è felicemente sbarcata – con giacca ormai d’ordinanza dai colori fluo modello Elly Schlein – agli European Innovation Days di San Francisco, cinguettando entusiasta da un convegno all’altro in cerca di un difficile rinnovo di carica.

Con la chairwoman, il cui attaccamento alla maglia italiana si evince a cominciare dal suo sito web personale esclusivamente in lingua inglese, in CdA siedono anche il grillino Marco Bellezza, corrente Di Maio, e l’Ad Enrico Resmini della nidiata McKinsey, poi in Vodafone e in EY, prima di approdare in FNI con annesso stipendio attorno al milione di euro. Nato a Oakland (Usa), Resmini ha avuto difficoltà ad ambientarsi al clima della Capitale. Naturalmente, non potevano mancare gli amici, nel caso di specie quelli d’antan del M5Stelle: Andrea Cardamone, riposizionato dal clan Casaleggio dopo una serie di fallimenti annunciati nella Banca Widiba – gruppo Mps – e Lucia Calvosa, sparita dai radar.

Il FNI nasceva con una dotazione di un miliardo di euro, oggi ne gestisce più di due. L’idea era quella di trasformare Roma nell’hub europeo dell’innovazione, ma nonostante le premesse e gli annunci, alla fine l’idea è rimasta lettera morta: oggi il FNI è un ibrido, né carne né pesce, a metà tra un fondo sovrano e un acceleratore di startup.

Accusata inizialmente di investire i propri capitali soprattutto a favore dei “baroni” del venture capital italiano, la Sgr pubblica del venture capital non è mai stata nei radar della destra, forse perché se ne ignora finora la potenziale portata, lasciando un pesante vuoto di gestione in un ambito così strategico. Corresponsabile la stessa Cdp che ha voluto sempre tenere ben nascosta la creatura del Conte 1, magari proprio per non farci mettere il naso da nessun esterno.

In questo modo, a differenza dei francesi e dei tedeschi, da sempre fautori del “venture capitalism” con fondi partiti almeno dieci anni prima del nostro e con dotazioni altissime, Cdp Venture Capital, partorito il CdA dopo quasi un anno di bisticci politici, anziché accelerare le imprese è rimasta lei ferma ai blocchi di partenza. Le seppur lodevoli intenzioni dell’ex Cdp Fabrizio Palermo, si sono infrante sul muro di ghiaccio innalzato dal suo sostituto Dario Scannapieco.

Con il 70% del capitale, l’azionista di maggioranza di FNI è “Cdp Equity”, dove si è appena insediato Fabio Barchiesi, brillante e simpatico ex fisioterapista di tanti manager. Il loro futuro, infatti, è legato alla parolina magica “open innovation” ossia innovazione alimentata dalle start up, a differenza dell’innovazione chiusa e sviluppata solo all’interno che nessuno ormai nel mondo segue più come modello. Unica eccezione, a questa nuova regola aurea ha come portabandiera quel dinosauro di Roberto Cingolani il quale, fresco di nomina come Chief Innovation & Technology Officer in Leonardo, pensò bene di bloccare tutti i progetti di “open innovation”, che per fortuna sono stati riattivati il giorno dopo la sua promozione a ministro grillino nel governo Draghi.

Anche in Leonardo – ed è forse anche per questo che si registrano tante resistenze verso il cavallo di ritorno – il buon Cingolani aveva annunciato con toni trionfalistici al CdA: “Leonardo sarà il nuovo MIT!”

Un riferimento che evidentemente porta male, tanto più se dovevano esserlo prima il suo IIT e poi lo Human Technopole, dove un certo Francesco Giavazzi, come dicono i suoi amici economisti a proposito degli opportunisti, ha dovuto piazzare in “end gaming” l’ex rettore della Bocconi Gianmario Verona per cercare di metterci una pezza. NT, “Nice Try”, direbbe a titolo di consolazione un campione del gaming alla fine del gioco.

Luigi Bisignani, Il Tempo 26 marzo 2023

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