Il ministro della Giustizia Nordio ha riferito alla Camera dei deputati sul caso Cospito, l’anarchico in regime di 41 bis condannato a 10 anni e 8 mesi di reclusione per aver gambizzato nel 2012 l’ad di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi, oltre che ad ulteriori vent’anni per aver messo nel 2006 una bomba sotto una caserma di Fossano (non esplosa). In totale 30 anni e 8 mesi, di cui circa 6 già scontati. I 20 anni di reclusione comminati per tentata “strage semplice” non sono definitivi in quanto la Corte di Cassazione ha disposto il rinvio alla Corte d’Appello di Torino ai fini della riqualificazione in peius del reato (da strage semplice a strage “politica”), dunque l’imputato rischia l’ergastolo senza benefici, cosiddetto ostativo. La vicenda pende ora davanti alla Consulta che dovrà decidere se sia possibile applicare l’attenuante del fatto di lieve entità rispetto ad un’accusa di “strage politica”. Questi i dati della vicenda giudiziaria di cui nessuno parla con precisione.
Il ministro, che ieri non ha contestato il dibattito di questi giorni sulla possibilità di rivedere il regime del “carcere duro” (“si può discutere a lungo se il 41 bis sia una norma da rivedere o da mantenere, si può discutere a lungo se possa o debba essere applicata ad autori di un certo tipo di reato piuttosto che di un altro”), ha tuttavia escluso che l’applicazione del 41 bis possa dipendere dallo stato di salute del detenuto (“lo stato di salute di un detenuto non può costituire elemento di pressione nei confronti dello Stato per modificarne lo status di detenzione”). In linea di principio le parole del ministro sono condivisibili; è invece a nostro avviso non condivisibile l’assunto secondo il quale la revoca del 41 bis a Cospito debba partire dal presupposto del suo stato di salute. La questione è stata affrontata in modo sbagliato.
Per approfondire:
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Cospito è colpevole di reati gravi, e l’applicazione del “carcere duro” dipende da circostanze che lo avrebbero visto in contatto con ambienti criminali vietati in regime di 41 bis. Ma il punto non è questo. Cosa ha fatto Cospito da meritare il 41 bis? Ha ucciso delle persone? No. Ha causato una strage? Per fortuna no, anche se ci aveva provato. Appartiene alla mafia, alla ‘ndragheta, alla camorra o alla sacra corona unita? No. E allora non è di per sé sufficiente il regime di detenzione ordinario, semmai con un controllo puntuale su colloqui, contatti interni al carcere e lettere? Si è persa di vista la ratio legis per cui fu introdotto il regime del “carcere duro”.
Facciamo un excursus storico. L’articolo 41 bis è una disposizione dell’ordinamento penitenziario italiano introdotta in una prima versione dalla Legge n. 354 del 26 luglio 1975 per contrastare il fenomeno delle brigate rosse. Quella legge consentiva allo Stato, in presenza di gravi motivazioni di ordine e sicurezza pubblica, di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione delle normali regole di trattamento previste dalla disciplina carceraria ordinaria. Erano provvedimenti adottati dal Consiglio dei ministri, caso per caso, a seconda dello scopo da raggiungere e destinati a particolari detenuti. Una esperienza durata sostanzialmente fino al 1981, dopo che il generale Dalla Chiesa era riuscito con successo a sconfiggere definitivamente la piaga brigatista. Una norma che tuttavia funzionò solo contro le Br visto che detenuti del calibro di Raffaele Cutolo – tanto per citare un esempio – hanno fatto in carcere tutto quello che volevano (Cutolo fu trasferito all’Asinara solo nella seconda metà del 1982 su intervento diretto dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini).
Successivamente, con la lotta alla mafia, il 41 bis fu modificato dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663, la cosiddetta legge Gozzini. Voluta da Giovanni Falcone, la norma stringeva ulteriormente le maglie introducendo un particolare “sistema di sorveglianza particolare” mirato per lo più ad impedire contatti in carcere tra detenuti pericolosi accusati del medesimo reato (in quel caso associazione a delinquere di stampo mafioso) e tra questi e l’esterno. Il Grand Hotel dell’Ucciardone – come veniva chiamato il carcere di Palermo tra gli Anni Settanta e Ottanta – divenne così un bunker in cui tenere efficacemente a bada i mafiosi più pericolosi. La norma fu successivamente inasprita dopo la morte di Falcone, con il decreto antimafia Martelli-Scotti (decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356).
Il decreto prevedeva che “quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell’interno, il Ministro di grazia e giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell’articolo 4- bis, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”. Tra questi delitti, anche l’eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza. La norma del 1992 aveva tuttavia carattere temporaneo (massimo tre anni, salvo proroghe). Fu la maggioranza di centrodestra (governo Berlusconi II) ad abrogare il carattere della temporaneità con la legge 23 dicembre 2002, n. 279. Attualmente è in vigore l’ultima riforma, quella approvata nel 2009 (governo Berlusconi IV) che ne ha modificato di nuovo i limiti temporali: il provvedimento, a carattere nuovamente temporaneo, può durare quattro anni e le proroghe due anni ciascuna (Legge n. 94/2009).
Ha torto dunque Roberto Scarpinato, ex pm di Palermo e adesso deputato del M5s, a dire che il 41 bis è una conquista ottenuta sul sangue dei giudici al cospetto di un Parlamento riottoso. Come si è visto il 41 bis fu introdotto non dopo la morte di Falcone, quando ne fu certamente intensificata la portata applicativa sulla spinta della strage di Capaci, bensì durante la stagione del terrorismo rosso (1975) e successivamente intensificato dal Parlamento proprio su richiesta di Falcone durante il maxiprocesso a Cosa nostra (1986). Semmai Scarpinato dovrebbe dire con chiarezza due cose:
1. fu la magistratura ad impedire a Falcone di essere nominato a capo dell’ufficio istruzione di Palermo dopo il pensionamento di Antonino Caponnetto (al quale il Csm preferì Antonino Meli per ragioni di anzianità e non di merito);
2. fu la politica (nella persona dell’allora ministro della Giustizia del Psi Claudio Martelli) a consentire a Falcone di dirigere gli Affari Penali al Ministero della Giustizia, e non certo la magistratura che si scagliò con forza contro Martelli.
Da questo excursus è rinvenibile un elemento inconfutabile: l’eccezionalità del 41 bis, e dunque la sua temporaneità, per i casi più gravi, sicuramente nei confronti dei membri di tutte le associazioni a delinquere di stampo mafioso e/o terroristico. Nel caso Cospito siamo di fronte ad un criminale politico che deve scontare trenta anni e forse l’ergastolo. Non ci sembra poco per uno che non ha ammazzato nessuno. Il 41 bis nei suoi confronti è una forzatura perché gli obiettivi del “carcere duro” possono essere in questo caso raggiunti anche con il regime di detenzione ordinaria, intensificando i controlli. Tra circa un mese sarà la Corte di Cassazione a decidere sulla legittimità o meno del 41 bis nei confronti di Cospito, dove il governo rischia di essere smentito. E se succedesse sarebbe per il governo una sconfitta.
Paolo Becchi e Giuseppe Palma, 3 febbraio 2023