Nel Pantheon del centrodestra sovranista o nazional-conservatore dovremmo issare di diritto due figure: non Enrico Berlinguer ovvio, ma Bettino Craxi e Francesco Cossiga, di cui ricorre il decimo anniversario della scomparsa. Solo che mentre Craxi restò, fin che rimase in Italia, una figura annoverabile alla sinistra, benché fortemente anticomunista, il Cossiga presidente picconatore è già a tutti gli effetti un modello e un maestro per noi nazional-conservatori postmoderni. Prima di tutto modello di condotta. In anticipo sorprendente sui tempi e considerando la sua cultura di provenienza, quella democratico cristiana di tendenza progressista, come egli stesso sottolineò più volte, Cossiga Presidente picconatore fu un artefice della politica spettacolo e del gesto comunicativo spiazzante, puro neo marinettismo politico.
Tre esempi. Quando, da presidente, si scagliò contro il segretario del Pci, Achille Occhetto, pur sempre il secondo partito del paese, definendolo “zombie con i baffi”, quindi pescando dalla cultura di massa; qualcosa che prima di lui avevano fatto solo Umberto Bossi o prima ancora Marco Pannella. Che però non sedevano al Quirinale.
Secondo esempio. A una trasmissione tv molto popolare e tremendamente divertente, il Postino di Piero Chiambretti, Cossiga intrattenne con il conduttore un duetto perfetto nei tempi comici eppure carico di implicazioni politiche. La distruzione del perimetro istituzionale: il presidente esterna duettando con un comico e comportandosi come tale. La messa alla berlina della sacralità ipocrita del potere, condotta dal potere stesso. Grillo scansati: il vero rivoluzionario è stato il Grande Sassarese.
Terzo esempio. Il discorso di fine 1991, nel punto forse più alto dell’incontro tra l’ufficialità presidenziale e gli italiani. Dopo un intervento privo, come tutti i messaggi della seconda parte del settennato cossighiano, di melassa retorica e luoghi comuni, come invece nella gran parte dei discorsi presidenziali, Cossiga lanciò una requisitoria politicamente gravida (da lì a poco scoppiò Tangentopoli) e l’intervento cessò dopo pochi minuti. Il discorso presidenziale più breve della storia.
Tutto questo perché Cossiga aveva compreso, come disse già nel discorso di fine 1989, che l’Italia con il crollo del muro di Berlino doveva cambiare completamente e al più presto. E per questo egli è ancora oggi un modello di analisi politica e di visione. Forgiata dalla guerra fredda, la partitocrazia per il Grande Sassarese non avrebbe potuto reggere senza quel piedistallo. Occorreva cambiare tutto altrimenti, come disse Cossiga nei primi giorni del 1992, gli italiani “inseguiranno i politici con i forconi”.
Da presidente della Repubblica, Cossiga operò per avvisare i partiti del pericolo: dichiarò finita la contrapposizione fascismo/antifascismo, un altro retaggio della guerra fredda, chiese il riconoscimento reciproco del Msi e del Pci, dialogò con i terroristi dopo il 1989 perché sapeva che la guerra civile da loro scatenata in realtà veniva dall’Est, e spinse perché tutti si rinnovassero e al tempo stesso rigenerassero la democrazia italiana. Magistrale in tal senso il messaggio alle Camere del 1991, in cui il presidente offrì una lancinante critica della palude italiana e i mezzi per uscirne, attraverso una riforma di carattere presidenzialistico. Sembra scritto ieri; e con ieri intendiamo 16 agosto 2020.
Ma il messaggio fu accolto con un silenzio gelido proprio dai principali partiti, che avrebbero dovuto essere i primi a leggerlo: il presidente del Consiglio Giulio Andreotti si rifiutò addirittura di contro firmarlo, le Camere quasi non ne discussero mentre il Pci-Pds accusò Cossiga di “fascismo”. E, a proposito di insulti al Quirinale, non passava giorno che esponenti comunisti non inveissero contro il presidente, fino a una manifestazione organizzata da Botteghe oscure in cui campeggiavano cartelli con “Cossiga boia” ben in vista. E il Picconatore è stato l’unico presidente a essere oggetto di una infame procedura di messa in stato di accusa: ovviamente avviata dai comunisti.