di Maddalena Loy
La Scienza e il Diritto sono finalmente accorsi in difesa degli otto milioni di studenti condannati a casa in Dad, ma la politica ha deciso di ignorare le evidenze e continuare a lasciarne la metà a casa, chiudendo nel frattempo altre attività produttive come bar e ristoranti con l’abolizione della zona gialla.
Scuola, chiusura ingiustificata
Ieri sono uscite due notizie che accendevano un faro sull’interruzione della scuola in presenza, servizio essenziale garantito dalla Costituzione. La prima è che la rivista scientifica Lancet ha pubblicato un’importante studio condotto in Italia che “scagiona” gli studenti e li solleva dalla responsabilità nella catena del contagio. La seconda è che il Tar del Lazio ha accolto due ricorsi che rilevano come “ingiustificata” la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, soprattutto quella superiore, penalizzata dalla Dad fin dai primi giorni della pandemia. Ma Mario Draghi e Roberto Speranza hanno deciso di ridisegnare la scuola post-pandemia procedendo per via politica e disattendendo le evidenze scientifiche e i vincoli giuridici che obbligherebbero l’esecutivo a far rientrare in classe tutti gli studenti di ogni ordine e grado, senza condizioni.
Risultato: oltre 3 milioni e 700 mila studenti (calcolati tra scuole superiori, seconde e terze medie) continuano ad essere privati della scuola in presenza; in più l’esecutivo, abolendo le zone gialle in tutta Italia, inasprisce le misure di contenimento presentandole invece come “un tesoretto” da sacrificare sull’altare della scuola… chiusa.
Ma vediamo cosa è successo e cerchiamo di spiegare il “giallo” delle evidenze scientifiche. Fermo restando che l’obiettivo dell’esecutivo era e resta il contenimento dei contagi, su quali basi il governo e alcune regioni, da dodici mesi, hanno deciso di non aprire completamente le scuole italiane, come invece è avvenuto in quasi tutti gli altri Paesi europei, a cominciare dalla Francia? Fino ad oggi, il Comitato tecnico scientifico si è fidato e affidato ai dati sui contagi effettuati sulla popolazione generale e pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità; parzialmente, anche a modelli matematici. Questi modelli sono “predittivi”: non studiano i fatti ma calcolano le probabilità e producono proiezioni, come fa da mesi per conto del governo l’Istituto Bruno Kessler di Trento, quello che “previde” 150.000 terapie intensive a giugno se avessimo riaperto.
Da qualche giorno però sul tavolo di Draghi, ma anche su quello di Speranza e di Bianchi, passando per la cabina di regia del Cts, circola uno studio “esplosivo” – pubblicato proprio ieri sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet/Regional Health – che ribalta e demolisce tutte le cosiddette certezze che hanno consentito al governo e ai ministeri di Salute e Istruzione di tenere gli studenti italiani, soprattutto quelli delle superiori, a casa in Dad da più di un anno solare e quasi due anni scolastici.
Si tratta dello studio di coorte in trasversale e prospettico dell’epidemiologa e biostatistica Sara Gandini dello Ieo di Milano, condotto da importanti biologi, medici, statistici ed epidemiologi italiani (Maurizio Rainisio, Maria Luisa Iannuzzo, Federica Bellerba, Francesco Cecconi), coordinati dal biologo Luca Scorrano dell’Università di Padova. Un fiore all’occhiello della ricerca italiana, che dà lustro agli scienziati italiani che lo hanno realizzato.
Lo studio che sconfessa il Cts
Il mastodontico studio effettuato a tappeto in tutta Italia da settembre a dicembre 2020 e aggiornato considerando nei termini della discussione anche le nuove varianti inglese e sudafricana, è stato citato dall’importante CDC americano (Center for Disease Control and Prevention) come “referenza fondamentale sulle scuole, in linea con la letteratura scientifica internazionale” che da mesi e in tutto il mondo ‘scagiona’ le scuole nella trasmissione del contagio. Il Presidente del Consiglio venerdì in conferenza stampa ha annunciato che la scuola primaria sarà aperta anche in zona rossa, facendo cenno a “evidenze scientifiche” non meglio specificate: ma i dati menzionati da Draghi, non corrispondono a quanto analizzato nello studio pubblicato su Lancet.
Il premier ha dichiarato infatti che “sono uscite nuove evidenze scientifiche che mostrano come la scuola fino alla prima media, di per sé, non sia fonte di contagio, o comunque sia fonte di contagio in misura molto limitata”. Lo studio Gandini, però, non limita la minore contagiosità degli studenti alla prima media ma almeno fino alla terza media (-39% di incidenza in meno rispetto alla popolazione generale), estendendola anche alle scuole superiori (-9% di incidenza rispetto alla popolazione generale). Un’estensione “esagerata” secondo il premier, che non ha però supportato scientificamente questa affermazione.
Draghi ha poi affermato che queste evidenze scientifiche “mostrano che le scuole sono un punto di contagio molto limitato solo in presenza di tutte le altre restrizioni, ma se queste restrizioni venissero completamente abolite diventerebbero esse stesse (le scuole, ndr) un punto di contagio alto ed elevato proprio perché sono le attività para o periscolastiche che aumentano i contagi”. Neanche questo passaggio legato alle altre restrizioni – verosimilmente delle attività produttive, contestate soprattutto dai partiti di centrodestra – è contenuto nello studio Gandini, anche perché gli studi epidemiologici, in quanto tali, osservano i dati e si basano sull’evidenza scientifica (Evidence Based Medicine-EBM), non danno suggerimenti sulla gestione sanitaria.
Uso politico della riapertura
Non solo: nelle parole pronunciate venerdì da Draghi prevale un uso politico della riapertura delle scuole, che condizionerà l’apertura delle altre attività del Paese. Il messaggio dell’esecutivo è chiaro: volete le scuole aperte? Bene, lo faremo soltanto fino alla prima media (come già era “concesso” prima del Dpcm del 2 marzo) e in cambio aboliremo le zone gialle, quelle che consentivano a bar e ristoranti di aprire almeno fino alle 18. Poco importa che il premier abbia ammesso chiaramente che “ciò che è fonte di contagio è tutto il resto che avviene intorno alla scuola, in primis il trasporto”: su quel trasporto il governo non ha messo strutturalmente mano in questi dodici lunghi mesi di pandemia, lasciando sulla pelle degli otto milioni di studenti italiani il peso (in termini didattici ma anche psicologici e sociali) della gestione dell’emergenza sanitaria.
La protesta nella società italiana però si fa sempre più forte: genitori e insegnanti di tutta Italia, riuniti sotto l’associazione “Rete Nazionale Scuola in Presenza” che la scorsa domenica ha portato in piazza migliaia di persone in tutte le città italiane, stanno organizzando manifestazioni e azioni giuridiche e contestualmente cercando di intavolare un dialogo con le istituzioni regionali e nazionali. Si parla di appelli alla Corte Costituzionale e al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “La scuola italiana sta per essere smantellata se si continua così, cioè rendendo la Dad strutturale, e ci saranno sacche di discriminazione enormi a livello territoriale, ma anche rispetto agli studenti degli altri Paesi” – dice l’avvocato Giuseppe Delle Vergini, uno dei responsabili nazionali della Rete che ha collaborato indirettamente a uno dei ricorsi al Tar. “È la fine della scuola e del senso stesso del sapere, come lo abbiamo inteso per duemila anni: l’obiettivo è di istituzionalizzare una società di “operai digitali” con competenze tecniche specifiche, ma senza quel sapere umanistico e giuridico che ha caratterizzato la società italiana per millenni. Con questa scuola i nostri figli sono condannati ad essere sempre più subalterni”.