Meglio il vaccino o la guarigione? E soprattutto: chi ha passato l’infezione da coronavirus, superando la malattia o senza neppure sviluppare un sintomo, deve lo stesso sottoporsi al siero anti Covid? Le domande se le sono poste in tanti, ricercatori e non. Diversi studi clinici, citati da The Lancet ma non solo, certificano infatti che i guariti sono protetti dall’infezione, difficilmente muoiono se si ribeccano Sars-CoV-2 e sopratutto potrebbero avere un “aumento del rischio di aventi avversi” in caso di dose anti Covid.
Secondo Paolo Gasparini, membro esperto del Consiglio Superiore di Sanità, Direttore di Genetica Medica dell’università di Trieste, “i guariti sono immuni contro tutte le porzioni del virus a differenza dei vaccinati che sono stati immunizzati solamente contro la proteina Spike (una parte del virus)”. Un vantaggio non da poco, e non sarebbe l’unico. “Diverse pubblicazione scientifiche – insiste in un’intervista al Tempo – dimostrano chiaramente che l’immunità naturale è maggiore e di più lunga durata di quella determinata dai vaccini”.
Bene. Se queste sono le premesse, le domande che sorgono sono almeno due:
1. Perché vaccinare anche chi si è infettato, se ha sviluppato anticorpi “migliori” e “più duraturi”? Dice Gasparini: “Normalmente nei soggetti guariti da un’infezione virale e con anticorpi circolanti non si procede ad una vaccinazione. Non si capisce quale è il razionale per fare un’eccezione a quanto praticato nella medicina sinora e cambiare strategia nel caso del Covid19″.
2. Perché non valutare gli anticorpi prima di procedere con l’eventuale iniezione di Pfizer, Moderna o Astrazeneca? In fondo, certifica Gasparini, per tutte le altre malattie virali ci si è sempre comportati in un altro modo: “In presenza di anticorpi circolanti non si vaccina, ma al massimo, trattandosi di una forma nuova di virosi, si monitora nel tempo la quantità di anticorpi”. E solo dopo si decide come procedere.
Il discorso vale per gli adulti, cosa che in realtà non è stata fatta (i guariti sono stati indotti a vaccinarsi). E varrà soprattutto per i bambini, che ora il governo si appresta ad introdurre al siero. Secondo Gasparini, visto che molti pargoli potrebbero già aver contratto l’infezione senza saperlo (“non manifesta alcun sintomo o sintomi molto blandi tipo un raffreddore”), prima di procedere con la campagna vaccinale bisognerebbe “eseguire un test sierologico”. L’obiettivo? Acquisire dati epidemiologici, ma soprattutto “definire strategie vaccinali razionali“. “ai bambini guariti – dice – si possono applicare le stesse regole che dovrebbero essere applicate ai guariti adulti ovvero non vaccinarli ma eventualmente monitorare l’evoluzione del tasso anticorpale nel tempo”.
Anche perché i numeri sono confortanti. “A fronte di 6.5 milioni di bambini affetti negli Stati Uniti – spiega l’esperto – nei bambini il tasso di ospedalizzazione varia nei vari Stati americani da 0% a 2% mentre quello dei decessi da 0% a 0.03%. La maggior parte dei casi ospedalizzati e la quasi totalità di quelli deceduti presentano comorbidità”. Tradotto: “Percentuali simili a quella dell’influenza stagionale”. Dunque, come prescrive anche Francesco Vaia, sul vaccino ai bimbi ci vuole calma e sangue freddo.