No, non è solo questione di lockdown, mascherine e distanziamento (significativamente mai definito “fisico”, ma sempre “sociale”, alludendo neanche troppo subliminalmente alla necessità di separarsi dagli altri, dall’”altro”).
C’è qualcosa di più profondo, senza bisogno di scomodare teorie complottistiche e apocalittiche ipotesi di “grande reset”: siamo diventati più riluttanti al rischio. I competenti direbbero: “risk averse”.
Ci siamo fatti inoculare l’idea che possa esistere il rischio-zero, il Covid-zero, il contagio-zero, e sarà sempre più difficile che un numero adeguato di persone, anche quando il percorso di vaccinazione avrà auspicabilmente subìto un’accelerazione, torni presto a fare i conti con lo stesso livello di rischio che accettavamo prima.
Badate bene: il punto non è solo “sanitario”. Non è solo disumana la prospettiva per cui qualcuno tenterà di dirci che anche in tempi normali sarà “meglio” indossare la mascherina ed evitare di stringersi la mano. Il punto è una complessiva e totalizzante avversione al rischio che potrà curvare in senso anti-liberale, anti-individuo, anti-intrapresa, ogni lato della nostra vita.
Avversione al rischio in economia, scoraggiando la propensione all’iniziativa privata, e inoculando la convinzione che tutto possa vivere di scelte centralizzate, piani pubblici, allocazione delle risorse largamente determinata dal governo pro tempore, più una spolverata di sussidi. Tutt’al più, con un finto dibattito tra sussidi presunti “buoni” e presunti “cattivi”.
Avversione al rischio in politica, scoraggiando visioni orientate a cambiamenti profondi, e presentando come accettabili solo posizioni minimaliste, da “cacciavite”, da riformismo pallido e omeopatico, direbbero i soliti competenti da “ordinary micromanagerialism”. Dando l’idea – drammaticamente sbagliata – che in particolare l’Italia abbia bisogno solo di mini-aggiustamenti: e invece rendendo permanente, a quel punto, una mera gestione, appena più o meno ordinata, di un declino ineluttabile.
Avversione al rischio sul terreno culturale e civile, scoraggiando confronti forti tra idee alternative e anche duramente contrastanti, e anzi – una volta a colpi di censura, magari telematica e social, un’altra volta a colpi di delegittimazione pubblica, sui media tradizionali – ostracizzando le idee forti e la possibilità stessa di una potente sfida di idee. C’è già una preoccupante arietta, in tutto il nostro Occidente, di ostilità verso il dissenso, di accettazione del dibattito solo tra sfumature e nuances compatibili fra loro, senza il piacere e senza la sfida anche intellettuale del contrasto tra visioni competitive.