Per carità, ben vengano gli aiuti all’Ucraina. Sacrosanto l’invio di uomini e mezzi per soccorrere i profughi. Sono due anni che abusiamo della locuzione “siamo in guerra”; almeno, stavolta è vero: la guerra c’è, nel cuore dell’Europa ed è giusto che ci assumiamo almeno la responsabilità del sostegno umanitario alla popolazione aggredita da Vladimir Putin. Permetteteci solo un sorriso amaro, perché non abbiamo ancora fatto in tempo a liberarci di uno stato d’emergenza (quello vigente da fine gennaio 2020, per via del Covid), che già ce ne propinano un altro.
Il Consiglio dei ministri, ieri, ha infatti deliberato tre mesi di stato d’emergenza “per intervento all’estero in conseguenza degli accadimenti in atto nel territorio dell’Ucraina”. Segnatamente, il provvedimento dell’esecutivo serve ad “assicurare il concorso dello Stato italiano nell’adozione di tutte le iniziative di Protezione civile anche attraverso la realizzazione di interventi straordinari e urgenti a supporto delle operazioni di soccorso e assistenza alla popolazione” colpita dal conflitto. A tal fine, è stata stanziata una prima tranche di finanziamenti, pari a tre milioni di euro, a carico del Fondo per le emergenze nazionali. Un fondo nazionale, appunto, per un intervento internazionale.
Si realizza la profezia di Massimo Cacciari e Giorgio Agamben? Il governo per emergenze? Lo stato d’eccezione permanente?
Stavolta, è indubbio, la giustificazione per approvare un regime straordinario, che deroghi alle norme normalmente operanti, sussiste eccome: in fondo, è la prima volta dalle guerre nei Balcani che, in Europa, ci ritroviamo con i tank e i bombardamenti. Il punto, semmai, è un altro: è che, come nella favoletta dell’uomo che gridava sempre “al lupo, al lupo” e, quando il lupo arrivò davvero, non fu creduto da nessuno, a furia di tenere in piedi lo stato d’emergenza in assenza di emergenza, quando l’emergenza è arrivata davvero, fatichiamo a non considerare pure questa come ordinaria amministrazione. Il sommo paradosso: l’emergenza si è a tal punto istituzionalizzata, da essere stata normalizzata.
È la cifra dell’epoca contemporanea. Catastrofi economiche, climatiche, sanitarie, belliche: da un certo punto di vista, tutto è emergenza. E anche quando non c’è una dichiarazione ufficiale del presidente del Consiglio, l’aura che circonda gli eventi politici è sempre caratterizzata dalla sensazione di un allarme incombente. Un po’ com’è accaduto con l’elezione del capo dello Stato: il sempreverde “Fate presto”, l’affanno dei partiti, il ripiegamento su un compromesso conservativo, che formalizza quella che doveva essere un’anomalia (il bis al Colle).
Tecnicamente, però, cosa significa che sussiste uno stato d’emergenza per la situazione Ucraina? Che basterà un dpcm per spedire i volontari nel Paese, ad assistere gli sfollati? Oppure – il che sarebbe peggio – che, senza una costante vigilanza da parte del Parlamento, si potrà usare l’umanitarismo come strumento politico? E anche in questo caso assisteremo a proroghe abnormi del regime speciale – da tre mesi a chissà quanti anni – qualora lo stallo nell’Est si prolungasse oltremisura? Siamo veramente entrati nell’epoca dello stato d’emergenza perenne, magari col pretesto, già confezionato, dell’ecologia?