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Croce, Einaudi e il culto della libertà

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Come direbbe un genitore di una volta, «ora filate tutti in libreria e acquistate Croce ed Einaudi di Giancristiano Desiderio». Questa rubrica intitolata alla libertà non può non avere nel suo scaffale più importante questo saggio veloce e chiaro edito da Rubbettino. Un’immersione nei grandi temi della cultura liberale fatta attraverso i due più grandi pensatori italiani del Novecento.

Il punto di partenza è la discussione durata più di quindici anni (tra il 1927 e gli anni ’40) sul rapporto fra liberalismo e liberismo. Lo sfondo, ricorda l’autore, è quello del totalitarismo, quello che i due vivevano in Italia sotto al fascismo e quello che rischiava di arrivare con il comunismo sovietico. Ebbene, in questo contesto i due grandi amici (perché tali erano e Desiderio ricorda alcuni stupendi aneddoti dalla visita del piemontese a Napoli per chiedere consigli sul giuramento dei professori al fascismo, chiudendo con l’indisponibilità di Croce a diventare senatore a vita presentata a colui che era diventato presidente della Repubblica) discutevano delle differenze fra liberalismo e liberismo.

A differenza del rapporto fra Croce e Gentile che durò perché «si potettero intendere solo fraintendendosi», quello di Croce con Einaudi era profondissimo, nessun fraintendimento era possibile e anche il dettaglio veniva analizzato. Certo, con punti di vista diversi, ma che nascevano, sostiene Desiderio, anche dal fatto che uno era un filosofo e l’altro un economista. Eppure non erano così distanti, come per anni abbiamo ritenuto. Entrambi infatti ritenevano la «religione della libertà» il punto di partenza. Desiderio ci racconta il timore di Croce che il liberismo potesse trasformarsi da principio economico a indebita morale.

E su questo il pragmatico, anglosassone Einaudi in fondo era d’accordo. Colui che diventò presidente della Repubblica riteneva che persino le consolidate regole auree della libertà economica come il lasciar passare il lasciar fare potessero diventare feticci illiberali se trasformati in leggi universali. Gli economisti non devono essere dei cuochi pronti con una ricetta deterministica per ogni problema. È ciò che pensava l’economista sabaudo, convinto dell’adesione degli strumenti dell’economia sempre e comunque alla realtà che ci circonda.

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