Da Albano a Zelensky: la sinistra ha rovinato pure Sanremo

Il Festival una volta ospitava “canzonette”. Poi pure l’Ariston è stato okkupato dalla sinistra

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Un tempo la sinistra intellettuale, e non solo, snobbava il Festival di Sanremo. Quelle proposte in riviera erano canzoni leggere, disimpegnate, “canzonette”: uno strumento di distrazione di massa in mano al potere, un modo per occultare al popolino ebete di “che lacrime grondasse e di che sangue” il sistema di potere. Chi ascoltava i cantautori, per non dire delle “canzoni di protesta” vere e proprie, non poteva che snobbare Nilla Pizzi, Albano, Nicola Di Bari, Massimo Ranieri e tutti gli altri protagonisti dell’Ariston. Poi le cose sono cambiate così radicalmente che oggi Sanremo è una manifestazione canora bigotta in senso opposto a quello di un tempo, attenta a rispettare con il bilancino tutti i dettami del “politicamente coretto”.

Dalla scelta, in sé certamente anche politica, di tenere fuori la politica da quel mondo ovattato si è passato a un festival non solo iperpoliticizzato ma anche in cui ogni confine fra intrattenimento e indottrinamento, moda e qualità, forma e sostanza, business e politica, è stato annullato. Il festival, allungatosi a dismisura (quest’anno si inizia già martedì 7 febbraio), attira l’attenzione non solo di una parte consistente del Paese, ma anche di quella sinistra intellettuale che domina i mezzi di comunicazione, pervade le nostre coscienze e manipola per i propri fini il senso comune e il sentimento di massa.

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Questa mutazione è avvenuta per gradi. All’inizio ci fu la rivalutazione dell’ “effimero” compiuta da Renato Nicolini, che fu assessore della cultura a Roma fra il 1976 e il 1985, con la sua “Estate Romana”. L’impulso fu notevole. Sembrava, e forse era, seppur promoso da un partito che continuava a chiamarsi “comunista”, un processo positivo: la sinistra intellettuale superava l’ atavico disprezzo per tutto ciò che era vicino ai gusti della gente e si avvicinava ad un concetto pù “nazional-popolare” di cultura. Celebre fu, ad esempio, la manifestazione promossa da Nicolini con Claudio Villa ed altri contro il fast-food (una sorta di “sovranismo alimentare” ante-litteram).

Quella che però avrebbe dovuto essere una separazione di ambiti, prima di tutto quello fra politica e divertimento, divenne un miscuglio postmoderno di alto e basso, di mediocrità diffusa e politicizzazione del pop, già con la direzione de “L’Unità” di Walter Veltroni, nei primi anni Novanta. L’importazione della cultura dei diritti e delle minoranze propria dei liberal americani, sfociata infine nel politically correct e nel woke, fece il resto. Fino ad arrivare ad oggi.

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A Sanremo, di conseguenza, il “leggero” di qualità di un tempo è diventato il leggero politicizzato e di nessuna qualità artistica degli ultimi festival. E le canzoni, appunto di infima qualità, si frammischiano a interventi che con la musica non c’entrano un piffero. Con il risultato che tutto viene frullato e anche una tragedia come la guerra in Ucraina rischia di essere ulteriormente spettacolarizzata e banalizzata. Poiché la distinzione, che non significa gerarchizzazione, delle attività umane è un principio liberale, la presenza di Zelensky a Sanremo è in linea di principio inopportuna, come fra i primi ha evidenziato Matteo Salvini.

La destra di governo guardi però oltre e provi soprattutto a espungere queste roccaforti per ristabilire un minimo di qualità e sana e pluralistica distinzione fra ciò che è diverso. Ne guadagneremmo tutti in freschezza, spontaneità, qualità, onestà intellettuale.

Corrado Ocone, 5 febbraio 2023

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