Cultura, tv e spettacoli

Da dove nasce lo spionaggio

Un libro rivela tecniche e curiosità dell’intelligence ai tempi dei Romani

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Ciro il Grande, VI secolo a.C., aveva una polizia segreta che si chiamava angareia (da qui «angariare»?). L’impero bizantino aveva un’arma segreta, il c.d. «fuoco greco», che incendiava tutto, perfino l’acqua, ed era impossibile a spegnersi. Il segreto fu tenuto così al sicuro per secoli che ancora oggi non è possibile riprodurlo; i bizantini smisero di usarlo quando gli arabi sottrassero loro le zone da cui traevano uno dei componenti. Fu Callinico, architetto siriano cristiano, in fuga davanti ai musulmani, a idearlo. Nel 550, conosciuto finalmente il segreto della seta, Giustiniano mandò due monaci a procurarsi i bachi, che furono carpiti ai cinesi a rischio della vita nascosti in un bastone cavo. Bisanzio aveva anche il trattato anonimo Peri Strategikes, nel quale c’è dentro tutta l’arte e che non ha niente da invidiare a Sun Tzu.

La storia dello spionaggio è vecchia quanto il mondo, anche se i primi romani trovavano disdicevole e immorale il sistema, preferendo il confronto a viso aperto. Poi, visto che i nemici non ricambiavano, anche loro lo adottarono eccome. Un bel libro di Giuseppe Cascarino, Arcana. I servizi segreti dei Romani (Il Cerchio, pp. 340 con illustrazioni, euro 34), ne fa la storia fornendo un numero incredibile di informazioni di dettaglio, compresi un glossario greco e uno latino dei termini dell’intelligence antica. Qui possiamo solo riportare qualche curiosità. Istieo, tiranno di Mileto (500 a.C.), fece rapare uno schiavo, sul cranio del quale fu tatuato un messaggio segreto; poi, cresciutigli i capelli, fu mandato in missione. Il metodo fu presto accantonato perché richiedeva troppo tempo.

Altro sistema era cucire il messaggio nella suola della scarpa del messaggero mentre dormiva, così che, anche se torturato, ne fosse ignaro. Oppure: scrivere il messaggio su una vescica di maiale, metterla in un vaso e riempire quest’ultimo d’olio fino all’orlo, così che a un’ispezione risultasse un semplice recipiente d’olio. Talvolta il messaggio era su lato B di una foglia medicamentosa applicata a una ferita. Demarato avvertì i greci dell’intenzione di Serse di invaderli con una tavoletta cerata: raschio la cera, scrisse sul legno e ricoprì di nuovo di cera. Plinio il Vecchio descrive un inchiostro simpatico la cui scritta compare strofinando con cenere. Ma furono gli arabi a usare il semplice succo di limone, visibile quando riscaldato. Il più antico cifrario che si conosca è quello di Cesare, a sostituzione monoalfabetica. Dice Svetonio che era a chiave 3, cioè al posto di una lettera veniva scritta la terza successiva.

Gli spartani usavano la scitala, lunga striscia di cuoio o papiro: la si arrotolava su un bastone e si scriveva il messaggio. Solo se il destinatario aveva un bastone dello stesso diametro poteva leggerlo. Era più che altro usato dagli Efori, i cinque sacerdoti che comandavano di fatto su Sparta. La storia antica, tuttavia, è piena di messaggi andati a vuoto per i più vari motivi. Cesare, per esempio, mentre andava in senato fu avvicinato da uno che gli diede un biglietto. Cesare lo intascò, riservandosi leggerlo in seguito con calma. Lo avesse letto subito sarebbe morto di vecchiaia. Nel 386 d. C., in Britannia, Teodosio padre dovette abolire gli arcani, cioè gli informatori, perché troppo spesso si facevano corrompere dai barbari. Naturalmente, le donne e lo spionaggio furono subito parenti.

Pensiamo a Dalila e Sansone, Elena di Troia (che comprese che il cavallo di legno era pieno di achei ma tacque), la ben nota contessa di Castiglione, cavourriana. Nel V sec. a. C. la bellissima Targhelia, al soldo dei persiani, convertì alla sua causa mezza Grecia (ebbe quattordici mariti: doveva essere uno schianto). Nel film Il gladiatore non compare, ma Commodo aveva un concubina cristiana, Marcia Demetria, che fu il braccio di una congiura tesa ad avvelenarlo. Ma già Annibale cambiava parrucca e abito diverse volte al giorno per depistare eventuali sicari. Il resto, nel libro: c’è da divertirsi.

Rino Cammilleri, 21 gennaio 2023