di Matteo Milanesi
Il crollo democratico nei sondaggi delle elezioni di midterm di fine 2022 non è l’unica fonte di preoccupazione per l’amministrazione Biden. L’apertura americana al colosso cinese, nel disperato tentativo di ricercare un ruolo di mediazione per risolvere il conflitto tra Russia e Ucraina, pare trasmettere la progressiva uscita di scena degli Stati Uniti dal ruolo di prima potenza mondiale, almeno sotto il profilo geopolitico.
La tragica ritirata di Kabul di quest’estate; il rifiuto di Arabia Saudita ed Emirati di parlare telefonicamente con il presidente americano, causa il raffreddamento dei rapporti tra i Paesi dopo la fine del mandato Trump; l’apertura al dialogo con il Venezuela di Maduro, dopo aver criticato il Tycoon di trattare con i dittatori per l’intera campagna elettorale 2020, sono stati alcuni degli esempi che mostrano un’America sempre più isolata, incapace di imporsi in prima persona nel tavolo della grandi potenze geopolitiche globali.
Per ultimo, mentre l’amministrazione Trump mediò con successo numerosi accordi di pace in Medio Oriente tra Israele, Bahrein, Marocco, Sudan ed Emirati Arabi Uniti, i democratici hanno riaperto i canali con Teheran (tra gli alleati di Putin), dichiarando la propria disponibilità a raggiungere un accordo sul nucleare iraniano, congiuntamente con Mosca. La posizione non solo potrebbe essere interpretata come un potenziale e fortissimo fattore di destabilizzazione del Medio Oriente; ma, in ambito internazionale, la decisione pare aver già incrinato i rapporti tra Washington e Gerusalemme, quest’ultima da sempre contraria a qualsiasi discussione sul nucleare iraniano. Lo step che potrebbe alterare definitivamente il ruolo geopolitico statunitense rimane proprio la “questione cinese”. Ci sono almeno due ragioni per cui l’amministrazione Biden dovrebbe scongiurare qualsiasi delega di mediazione al regime cinese nel conflitto russo-ucraino.
La prima: la Cina non è Paese assolutamente neutrale. Non solo perché il Dragone si è astenuto dal condannare l’invasione di Putin in sede Onu, ma anche perché, su confessione dello stesso ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, l’amicizia con la Russia è “solida come una roccia. I due Paesi contribuiscono a portare pace e stabilità nel mondo”. Secondo alcuni scoop di dicembre del “New York Times”, l’amministrazione Biden avrebbe consegnato a Xi dossier e materiale di intelligence americano strettamente riservato, nel tentativo di convincere Putin a rinunciare all’aggressione dell’Ucraina. Anzi, sempre secondo il Nyt, la Cina avrebbe appoggiato l’invasione russa ad una condizione: rimandarla dopo la fine delle Olimpiadi. E non sembra un caso che i rispettivi leader si siano incontrati il 4 febbraio, il giorno dell’inaugurazione dei giochi olimpici.
In definitiva: che senso avrebbe appoggiare la Cina in un’eventuale mediazione tra Ucraina e Russia, se questa si manifesta apertamente a fianco di Putin, contro la Nato e l’Occidente? Un eventuale esito positivo di tale intervento non potrebbe essere frutto di un promesso sostegno russo in caso di invasione del Dragone di Taiwan?
La seconda: l’apertura al regime di Maduro per limitare i prezzi stellari di gas e petrolio significa consegnarsi nelle mani di Russia e Cina. Infatti, ormai da molti anni, sia Mosca che Pechino sono le due principali fonti economiche e militari del Venezuela, fortemente compromesso dalle sanzioni americane imposte dalla precedente amministrazione repubblicana. La Russia sta contribuendo alla ristrutturazione del debito venezuelano con cifre che sfiorano picchi di 40 miliardi; la Cina ha contribuito con prestiti dall’ammontare di 60 miliardi, oltre ad un sostegno di circa 25 miliardi in ambito energetico; compagnie statali russe detengono quasi il 10 per cento del processo di estrazione e trasformazione del petrolio venezuelano.
Insomma, mentre Maduro trattiene stretti rapporti con i due principali avversari politici dell’alleanza atlantica nei settori strategici; proprio in questi ultimi giorni, il leader venezuelano ha incarnato la dose affermando di schierarsi a fianco di Mosca, e definendo le sanzioni “un crimine nei confronti dei russi”. Che senso avrebbe intrattenere legami con uno Stato tra i principali sponsor di Xi e Putin, nemico Usa a pochi chilometri dai propri confini, se non quello di creare un cortocircuito senza precedenti?
Con la precedente amministrazione Trump, gli Stati Uniti erano tornati al centro del ring geopolitico, conciliando al meglio autorevolezza nazionale e contenimento dell’avversario. Quella forza sembra ormai persa, smarrita, scomparsa. E Putin ne ha approfittato. Ad oggi, rimane esclusivamente un’alternativa: aspettare il 2024 per le nuove elezioni americane, in nome di un presidente in grado di conciliare una rispettata alleanza atlantica contro i nuovi regimi. Nel frattempo, incrociamo le dita affinché la Cina non ne approfitti per spogliare Taiwan della sua sovranità…