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D’accordo, le fake news vanno arginate. Ma chi lo decide?

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Le fake news esistono, eccome. Così come ieri non si poteva negare la diffusione di notizie false. Eppure sono diventate un’emergenza. E questa è la prima delle fake news che dovremmo combattere.

Cerchiamo di mettere un po’ d’ordine. Le fake news non sono dunque semplicemente notizie false, sono qualcosa di più, per diffusione, persistenza, e viralità; il passo per diventare un’emergenza è dunque breve.

Un americano medio tocca, verrebbe da dire accarezza, il proprio smartphone 2.600 volte al giorno. Le fake news, paradosso dei paradossi, combinate con i telefoni che sono invece smart, diventano micidiali: fake and smart news.

In un contesto in cui due sole aziende, Facebook e Google, si spartiscono metà della pubblicità digitale mondiale e rappresentano il 40 per cento del consumo digitale degli americani. Insomma l’hardware, la pistola, sono gli smartphone. Il software, la pallottola, sono social network e motori di ricerca.

E il dito sul grilletto è il nostro, quello di miliardi di individui che generano contenuti, news.

Di queste tre categorie, le prime due guadagnano, quanto più la terza si mette a sparare, poco importa a chi. Quest’ultima non ricava nulla dal meccanismo, se non visibilità, che scambia in modo irrazionale fornendo preziose informazioni personali.

Ma questo è un altro discorso che non è il caso di confondere con la presunta emergenza da fake news. A cui velocemente ritorniamo.

Le fake and smart news sono diventate un’emergenza: è colpa loro se giovani e fragili ragazze si suicidano, governi saltano, campagne elettorali mutano direzione, politici e uomini eminenti vengono diffamati e così via.

Per la prima volta grazie alle fake and smart news si può compromettere la reputazione di un membro qualunque dell’establishment, mentre nel mondo pre-digitale era possibile al limite lo sputtanamento della sola «bocca di rosa» e per di più con strumenti di diffusione non proprio di massa.

Per questo l’establishment vuole correre ai ripari: la notizia falsa, ma non solo quella, del passato era in un certo modo arginabile grazie al rapporto con l’editore. Oggi la proprietà è diffusa, parcellizzata. Ciò rende la situazione esplosiva poiché letteralmente incontrollabile.

Come tutte le emergenze, a definirle è un piccolo club di decisori che tra la moltitudine di cataclismi sceglie, con criteri del tutto arbitrari anche se consolidati, quale affrontare.

1) La prima conseguenza è che a occuparsi dell’emergenza saranno proprio coloro che l’hanno dichiarata e dunque necessariamente lo Stato, nelle sue diverse articolazioni.

2) La seconda, collegata alla prima, è che il fallimento si ritiene essere sempre del mercato e dunque contro di esso si deve intervenire, presumendo che un pugno di decisori pubblici sappia come meglio affrontare e risolvere la questione. Che d’altronde loro stessi hanno imposto in cima all’agenda delle cose da fare.

In un cortocircuito maledetto.

Nel caso specifico a essere potenzialmente sotto attacco diventa così una nostra libertà fondamentale, quella di parola che gli americani alla fine del ‘700 hanno voluto codificare con il Primo emendamento.

Come il welfare state, pensato con la buona intenzione di fornire risorse vitali a chi non le aveva, è stato il grimaldello con cui si è affermato il socialismo europeo, così la guerra alle fake news rischia di diventare una nuova e rinnovata forma di socialismo.

Robert Spencer nel suo favoloso saggio sul free speech, non a caso nota come la battaglia per la libertà di parola, per il free speech, appunto, per il rispetto del Primo emendamento, sia stata abbandonata dalla sinistra liberal del secolo scorso, che tanto la rivendicò.

La sinistra infatti persegue oggi i suoi fini di centralismo più o meno democratico con strumenti nuovi: con la scusa dell’hate speech viene ricercato un controllo della parola, una sanzione, una riduzione della portata e della forza del Primo emendamento. 

L’Economist, questa settimana, ha dedicato un approfondimento proprio alle fake news, sostenendo che i social media invece di diffondere cultura stanno diffondendo veleni.

Lo stesso settimanale inglese nota però come gli americani, i cittadini governati dal Primo emendamento, solo nel 37 per cento dei casi si fidano delle informazioni recuperate sulla rete. Insomma, questa si chiama risposta di mercato.

Le fake and smart news esistono, è ovvio. Ma la strada per combatterle non è, dice giustamente Spencer, scardinare il Primo emendamento che ci dovrebbe dare la possibilità anche di fare «discorsi di odio» poiché la loro censura sarebbe un male peggiore della loro diffusione.

Si dovrebbe, dicevamo, attendere la risposta del mercato, che sa selezionare la buona informazione dalla cattiva. Almeno quanto è in grado di farlo chi ci governa.

Pensiamo ad alcuni casi recenti e capirete bene come la presunzione che in pochi colti, intelligenti, savi possano capire meglio della moltitudine dei bruti che cosa sia fake e che cosa no, si rivela una bufala. 

Oggi molti si scagliano contro le intromissioni, operate attraverso i social, fatte da operatori interessati e forse russi nella campagna elettorale americana. Tutti volti a favorire Trump. La cosa è tutta da dimostrare, ma diamola anche per buona.

Resta il fatto che gli americani hanno poi votato e usato la loro democrazia eleggendo Trump e avviando così un gigantesco cambio di poteri a cui stiamo assistendo a Washington. Gli stessi poteri forti americani scalzati e che criticano le ingerenze social dei russi pro-Trump adottarono i medesimi strumenti digitali di cui si sentono oggi vittime, come leve della loro politica estera.

Qualcuno ci sa dire che cosa ci sia di diverso nell’utilizzo che le passate amministrazioni americane hanno fatto per le altrettanto clamorose rivoluzioni arabe, per l’estromissione del loro ex alleato Mubarak dall’Egitto?

Rivoluzioni che in molti oggi considerano essere state un pericoloso fallimento e strumento di destabilizzazione di un’area dove sta prosperando il terrorismo fondamentalista. In quel caso la retorica dei social che facevano scendere i giovani in piazza, funzionava.

La fake news, come si è rivelata a distanza di anni, di una rinnovata e laica società araba, allora nessuno riuscì a combatterla. Perché in quel caso stampa, opinione liberal, sinistra internazionale e digitale erano tutti dalla stessa parte.

Ora le cose non stanno più così e gli stessi social che hanno alimentato piazza Tahrir, la rivoluzione ucraina e le rivendicazione dei diritti di Teheran sono diventati pericolosi. Ma chi lo ha deciso? 

Nicola Porro, Il Giornale 12 novembre 2017

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