Chiesa

Dai tortellini ai crocefissi. Quando è la Chiesa a sottomettersi

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Dobbiamo dircelo: oggi una delle minacce per il cristianesimo nel mondo viene proprio dalla Chiesa cattolica. O perlomeno dalle sue gerarchie, a cominciare dal pontefice. Che non è cosa di poco conto. E si badi che scrivo non dal punto di vista di un cattolicesimo apocalittico e tradizionalista (curioso aggettivo: ogni cattolico dovrebbe essere tradizionalista). Ma piuttosto parlo da “cattolico ateo”, come si definiva il grande scrittore nazionalista francese Philippe Barrès: oggi si dice “ateo devoto” o, in inglese, teo-con. Da questo punto di vista, ci appare chiaro che l’attuale vertice cattolico, se non nemico del cristianesimo, è di certo ostile all’identità occidentale. Che, ricordiamolo, non è una definizione geografica ma culturale.

Occidente, come insegna Leo Strauss, è Atene, Gerusalemme, Roma, nella duplice veste di romanità e di cristianesimo. E proprio il cristianesimo rielabora classicità ed ebraismo con ciò fondando l’identità occidentale, con il suo correlato di liberalismo, tolleranza, democrazia. Tutto ciò, per cui avevano combattuto i due grandi pontefici Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, è stato gettato via dall’attuale, che sta conformando sul piano mondiale una chiesa che rompe in maniera chirurgica con l’eredità occidentale.

I due casi di ieri, i tortellini islamizzati e i crocefissi nelle scuole, sono solo due sintomi di questa deriva della chiesa bergoglista. Ha poco da lamentarsi la curia bolognese sulla supposta montatura del caso. Da un lato, l’arcivescovo Zuppi ha lanciato un ballon d’essai aspettando la reazione, e quando questa è stata una corale protesta, ha innestato la retro: come un sottosegretario qualsiasi. Dall’altro le false notizie (ammesso il caso lo fosse) sono interessanti proprio perché false. Zuppi è infatti tanto considerato un amico dell’Islam che nessuno si è stupito e tutti hanno preso per buona la versione. Nei confronti dell’islam, Zuppi e le teste di punta della chiesa bergoglista perseguono infatti quella che la scrittrice isreeliana Bat Ye’or chiama la dhimmitudine, cioè la sottomissione patteggiata, una strategia utilizzata dalle chiese cristiane nei paesi islamici, e che ha condotto alla loro decimazione. C’è indubbiamente anche un sovrappiù d’arguzia gesuitica, del tipo io cedo sulla carne di maiale in cambio di non belligeranza da parte dell’islam.

Ma, appunto, l’Islam non ragiona così: questi patteggiamenti sono considerati, non a torto, come segnali di debolezza, di cui profittare. Riguardo la questione della alimentazione e della carne di maiale, è da anni che in tutti i paesi europei questo argomento crea tensioni, tanto che vi intervenne persino il presidente Sarkozy. Gli islamici non vogliono infatti scegliere tra maiale e pollo: esigono che nelle mense scolastiche il porco sia bandito perché contamina tutto. Ora si da il caso che il maiale, come scrive in un bel libro lo storico Michel Pastoureau (Il maiale. Storia di un cugino poco amato, Ponte alle Grazie) sia un simbolo dell’Occidente e che la sua carne sia l’asse alimentare (quindi, identitario) di Francia, Italia, Spagna, Germania e cosi via. Agli occhi delle organizzazioni islamiche la battaglia per l’eliminazione del maiale è campale e la sua vittoria costituirebbe un regresso per noi e un passo verso la sottomissione.

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