Non faremo l’errore che per una vita ha fatto Piercamillo Davigo, uno dei magistrati simbolo di Mani Pulite. Prendiamo perciò atto della notizia che arriva da Brescia, e che lo dà indagato per “abuso di atti di ufficio”, ma, fino a quando un giudice non si pronuncerà nelle sedi e nelle forme dovute, lo giudicheremo innocente.
È l’inquirente che dovrà trovare le prove dell’eventuale reato e non certo l’indagato a trovarne a proprio discapito (se non nella misura in cui dovrà rispondere alle domande di chi indaga quando sarà). Il nostro atteggiamento non dipende da acquiescenza, indifferenza, magnanimità, e nemmeno solamente da una diversa visione della giustizia rispetto a quella che in tanti anni ha dimostrato di essere propria del dottor Davigo. Si tratta semplicemente, per noi, di un’adesione doverosa ai principi della civiltà giuridica moderna o liberale.
Innocente fino a prova contraria, che spetta per una volta ad altri esibire, Davigo non può però impedirci di riflettere sul carattere simbolico della sua vicenda, quasi paradigma di quello che è stata la giustizia nel nostro Paese negli ultimi decenni e che oggi ne rende necessaria una radicale riforma nella direzione indicata dai sei referendum radical-leghisti. Avendo anzi anche il coraggio, quando matureranno le condizioni anche a livello di opinione pubblica e consapevolezza generale, di andare oltre. Riforme radicali ma non nel senso trasformativo, bensì in quello restaurativo della civiltà giuridica compromessa. Davigo rappresenta perciò per noi non una persona ma l’idealtipo di ciò che un operatore di giustizia mai dovrebbe essere se non si vuol compromettere quella civiltà.
Prima di tutto l’idea di “purezza”: essa non può avere a che fare con la giustizia, né i magistrati possono autodichiararsene custodi e avocarsene l’esclusività. Essa pertiene casomai alla sfera della perfezione morale di ognuno, cioè individuale, rappresentando anche da un altro punto di vista un obiettivo ahimè (o forse per fortuna) mai realizzabile a livello sociale. A parte il fatto noto che se fa il puro prima o poi arriva, come suol dirsi, qualcuno più puro di te che ti accusa in suo nome, il punto è che l’operatore di giustizia non può usare la legge stessa per ottenere un fine morale. Egli deve piuttosto e semplicemente applicarla, riconducendo alle sue norme i casi particolari (che è operazione non meccanica e umiliante ma di alta responsabilità). Per farlo il giudice deve essere indipendente, terzo, ma l’indipendenza necessaria dal potere politico non può significare per la magistratura impunità e irresponsabilità.
Indipendenza non significa chiudersi in se stessi, in modo autoreferenziale e corporativo, ed ergersi a parte della società diversa e privilegiata. Una conseguenza che a ben vedere dipende proprio dall’errato punto di partenza: se io devo combattere una battaglia in nome di un ideale, e non semplicemente applicare la legge, è chiaro che poi la legge diventa secondaria e la posso bypassare per raggiungere lo scopo innalzato al di sopra di essa. Così come è chiaro che io debbo fare squadra con chi è impegnato nella mia stessa missione, cioè con la classe “rivoluzionaria” dei magistrati. Che sono due conseguenze puntualmente verificatesi nell’ultimo caso.
Davigo sembrerebbe infatti non aver consegnato a chi di dovere le carte in suo possesso come dovuto (da qui l’abuso di ufficio) per servirsene in modo illegale per la sua battaglia. Così come è vero che quasi mai i magistrati, autogovernandosi, sanzionino in modo adeguato chi fra loro sgarra. Che dire? Ci sarebbe tanto da riflettere, e fare. Un Davigo innocente, e in tranquilla pensione, è il nostro augurio per l’uomo. L’archiviazione del Davighismo, ovvero del Davigo-pensiero, per quanto invece ci auguriamo il (bene del) Paese.
Corrado Ocone, 18 luglio 2021