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Davos, dove i ricconi globali sparano banalità pop - Seconda parte

Per tre anni, dal 2008 al 2010, abbiamo avuto un Davos piagnucoloso, che non si capacitava di come non avesse previsto la crisi e di come essa avesse fatto male. Era l’epoca del «Luv»: la ripresa in America a forma di U, prima giù, poi più piatta, poi in risalita; in Europa a L e in Asia, mai vista grande crisi, era a V. In quegli anni non si incontrava un banchiere americana manco a pagarlo: nel 2009 praticamente zero assoluto. E pensare che fino al 2008 erano loro le reginette. Un triennio contraddistinto dal favoloso paradosso per cui si discuteva, in parole povere, del perché a Davos non avessero capito nulla negli anni precedenti. Nel frattempo le aziende e l’economia si attrezzavano: automazione, economia delle piattaforme, industria 4.0, intelligenza artificiale, e Asia the andava alla grande. Anche negli anni a seguire non c’è stata un’idea che sia stata una. La solita infatuazione per l’ultimo disuguaglionista, una spruzzata di verde mollata agli attori: roba che piace tanto al New York Times. Nei frattempo il mondo cambiava e i cosiddetti populisti – da Trump a Bolsonaro – lo conquistavano, sfilandolo ai radical da sotto il naso.

Nel 2011 si vede ancora Clinton e soprattutto torna un po’ di Luce e riprendono i grandi party: i più ambiti quelli di Google e Kpmg: miliardari ed escort (si avete capito bene, nonostante i badge) a go-go. D’altronde si può lasciare la correttezza politica in America e Trump non è ancora arrivato. Nel 2013 si inventano come titolo la “resilienza dinamica”: gli autori non furono arrestati per aver solo pensato un tema così assurdo, ma immaginate un po’ voi l’interesse. L’anno dopo il Papa scrive una non fondamentale lettera che conquisterà le prime pagine di tutti i quotidiani e se la batte con le aperture agli affari del presidente iraniano Rouhani. Davos è così. Si riempie la bocca di tutto: inclusività e parità di genere, ma mette sul palco il presidente iraniano; approccio dignitoso al lavoro che chiede il Papa, e palcoscenico per i grandi dell’economia delle piattaforme che cambiano le nostre città. Si tiene tutto, a Davos.

Nel 2015 persino Renzi, che in genere diceva qualcosa, contagiato dalla platea e forse da Emma Watson che parlava di equità, fece un discorso da Corazzata Potemkin sulla leadership del cambiamento: traffico da bollino nero su Google per andare a rileggerselo, un po’ come per il discorso della stay foolish di Steve Jobs. Net 2016 e 2017 Di Caprio e Matt Damon ci spiegano il mondo, ma il clou e il 2019, quando arriva il capo del più importante, diffuso, dittatoriale partito comunista al mondo, cioè Xi da Pechino, il quale ci spiega da Davos perché dobbiamo apprezzare l’economia di mercato. E vabbè, allora vale tutto: lezioni di liberalismo da Xi. E cosi anche quest’anno ci riprendiamo Davos e le sue banalità. Una rappresentazione teatrale dove la drammaturgia si basa non su cosa si dice, e cioè niente, ma su chi c’è, e cioè tutti.

Nicola Porro, Il Giornale 21 gennaio 2020

 

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