Il piccolo gossip su Sankt Moritz, una località sciistica dove l’acqua in bottiglietta nei rifugi costa come minimo 5 franchi, vuole che gran parte del suo successo si debba alla famiglia di armatori greci Niarchos. Oltre a salvare alberghi in difficolta negli anni ’50, rilevare impianti dove in pochi risalivano, avrebbero migliorato la pista dell’aeroporto di Samedan, contribuendo ad allungarla e a riscaldarla. Atterrare in quell’aeroporto è davvero un incubo. É molto alto sopra al livello del mare, incastrato tra le montagne, e soggetto a venti pericolosi e che cambiano. Chissà se gli organizzatori dell’annuale incontro di Davos sono a conoscenza del fatto che gran parte anche del loro successo derivi dall’estro di una famiglia di miliardari che ha aperto il portafoglio affinché ai propri amici fosse reso pia semplice arrivare in aereo privato ai cocktail party.
Chissà se i cerimonieri che da dieci anni ci affliggono sulla disuguaglianza dell’economia mondiale sono a conoscenza del fatto che i loro beniamini, da Bono a Di Caprio, da Xi Jinping a Rouhani, senza quell’aeroporto col cavolo che avrebbero impiegato tre giorni per chiacchierare di futuro in mezzo alle montagne innevate e irraggiungibili della Svizzera. Meglio un video registrato, no? E anche quest’anno, riparte la cinque giorni di Davos. Con un pizzico di ipocrisia in più: prima la ricca platea arrivata con voli privati si sciroppava i danni della disuguaglianza economica, oggi la medesima platea, oltre al mondo dei ricchi sempre più ricchi, si gusta il tema del cambiamento climatico.
Davos, per capirci tra di noi, è un gigantesco filtro della cattiva coscienza dei nostri ricconi globali. Un setaccio con il quale depurare il complesso di colpa dell’establishment globalizzato. Davos e il genius loci del pentimento, molto temporaneo, di una classe dirigente che dove spiegare al mondo i propri fallimenti, attribuendoli ovviamente ad altri. Ci spiegano cosa dobbiamo fare, noi che così ricchi non siamo. E dunque si vestono «alla Davos»: prendono una limousine, ovviamente elettrica, dalla propria penthouse in California o New York dotata di ricicla, vanno al terminal dei voli privati, si sdraiano sul loro jet dove la plastica bandita, arrivano a Samedan, dove vengono forniti di badge color platino che dà accesso a tutti i party e a tutte le sale, e poi en passant vanno sul palco e ci dicono che ci sono troppe disuguaglianze e troppo inquinamento. E uno dovrebbe pensare: ma questi ci stanno a prendere per i fondelli? Uno Bello come Brad (Pitt) o Matt e uno ricco come Bill Gates o Sergey Brin che ci parlano di disuguaglianza e magari di inquinare di meno? E invece no, siamo lì che pendiamo dalle loro labbra.
Alcuni, in buona fede, vanno a Davos per capire dove va il mondo. Poi alla fine, anche se non lo dicono alle mogli (niente più sessista, classista e razzista di Davos), l’unica cosa che occorre capire subito è dove si tengano i party migliori. Ma ritornando alle case serie, si fa per dire, uno pensa di immergersi in un traffico di intelligenze da cui trarre qualche buona idea. Balle. Semmai l’unico traffico che si incontra è di influenze. Se metti Davigo a Davos, li arresta tutti.
Negli ultimi dieci anni l’incontro dei superfighetti ha scodellato tante di quelle banalità che Conte, nei suoi discorsi, sembra un brillante innovatore del linguaggio a colpi di calembour. Vediamone una breve carrellata. Anzi, partiamo da quest’anno. Come sempre avviene a Davos, l’idea del convegno non è mai originale: sembra che gli organizzatori vadano sulla pagina di ricerche di Google e cerchino di capire quali sono le parole più digitate dallo stupido della Rete. II giochino così funziona: un club elitario che si finge democratico. E quasi quasi ti viene voglia di parlare come Lenin e ripensare al trattamento del reietto Kautsky. E vada per il cambiamento climatico, ovviamente nella più perfetta ortodossia. Per fortuna che quest’anno ci sarà Trump, che speriamo dia un po’ di brio. Insomma, con Davos non sbagli mai: altro che leadership, e un monumento alla followership. Con qualche anno di ritardo parlano di ciò che a loro è sfuggito e di cui ii pensiero più debole discute.
Per tre anni, dal 2008 al 2010, abbiamo avuto un Davos piagnucoloso, che non si capacitava di come non avesse previsto la crisi e di come essa avesse fatto male. Era l’epoca del «Luv»: la ripresa in America a forma di U, prima giù, poi più piatta, poi in risalita; in Europa a L e in Asia, mai vista grande crisi, era a V. In quegli anni non si incontrava un banchiere americana manco a pagarlo: nel 2009 praticamente zero assoluto. E pensare che fino al 2008 erano loro le reginette. Un triennio contraddistinto dal favoloso paradosso per cui si discuteva, in parole povere, del perché a Davos non avessero capito nulla negli anni precedenti. Nel frattempo le aziende e l’economia si attrezzavano: automazione, economia delle piattaforme, industria 4.0, intelligenza artificiale, e Asia the andava alla grande. Anche negli anni a seguire non c’è stata un’idea che sia stata una. La solita infatuazione per l’ultimo disuguaglionista, una spruzzata di verde mollata agli attori: roba che piace tanto al New York Times. Nei frattempo il mondo cambiava e i cosiddetti populisti – da Trump a Bolsonaro – lo conquistavano, sfilandolo ai radical da sotto il naso.
Nel 2011 si vede ancora Clinton e soprattutto torna un po’ di Luce e riprendono i grandi party: i più ambiti quelli di Google e Kpmg: miliardari ed escort (si avete capito bene, nonostante i badge) a go-go. D’altronde si può lasciare la correttezza politica in America e Trump non è ancora arrivato. Nel 2013 si inventano come titolo la “resilienza dinamica”: gli autori non furono arrestati per aver solo pensato un tema così assurdo, ma immaginate un po’ voi l’interesse. L’anno dopo il Papa scrive una non fondamentale lettera che conquisterà le prime pagine di tutti i quotidiani e se la batte con le aperture agli affari del presidente iraniano Rouhani. Davos è così. Si riempie la bocca di tutto: inclusività e parità di genere, ma mette sul palco il presidente iraniano; approccio dignitoso al lavoro che chiede il Papa, e palcoscenico per i grandi dell’economia delle piattaforme che cambiano le nostre città. Si tiene tutto, a Davos.
Nel 2015 persino Renzi, che in genere diceva qualcosa, contagiato dalla platea e forse da Emma Watson che parlava di equità, fece un discorso da Corazzata Potemkin sulla leadership del cambiamento: traffico da bollino nero su Google per andare a rileggerselo, un po’ come per il discorso della stay foolish di Steve Jobs. Net 2016 e 2017 Di Caprio e Matt Damon ci spiegano il mondo, ma il clou e il 2019, quando arriva il capo del più importante, diffuso, dittatoriale partito comunista al mondo, cioè Xi da Pechino, il quale ci spiega da Davos perché dobbiamo apprezzare l’economia di mercato. E vabbè, allora vale tutto: lezioni di liberalismo da Xi. E cosi anche quest’anno ci riprendiamo Davos e le sue banalità. Una rappresentazione teatrale dove la drammaturgia si basa non su cosa si dice, e cioè niente, ma su chi c’è, e cioè tutti.
Nicola Porro, Il Giornale 21 gennaio 2020