Cercando di offrire una risposta sul perché le rivoluzioni comuniste non si fossero verificate anche nei Paesi industrializzati, Antonio Gramsci elaborò il concetto di egemonia culturale: per creare una rete di capillare diffusione delle idee comuniste, era necessario prendere il controllo di tutti gli strumenti culturali, in primis la scuola, le biblioteche ed i mezzi di comunicazione di massa, figli dell’ideologia dominante capitalista.
Gramsci ideò la distinzione tra dominio e direzione. Secondo il padre fondatore del Pci, il dominio coincideva con il potere governativo, pressoché irraggiungibile per i comunisti a causa della fortissima popolarità dei liberali e dei socialisti, mentre la direzione consisteva nell’imposizione di un’egemonia intellettuale comunista che doveva fungere da collante tra le varie classi sociali del Paese. Se l’auspicio di Gramsci si è dimostrato vincente – soprattutto in Italia, in cui librerie e giornali alzano un coro unico raccontando e descrivendo la politics quotidiana – oggi tutto questo non sembra più sufficiente.
Negli ultimi anni, hanno preso forza due modi di riscrivere e sanificare la grande cultura letteraria: il primo è quello della distruzione di opere e statue – come dimostrato dalle azioni deliranti del gruppo Black Lives Matter. Il secondo consiste nell’adattarle alla nostra epoca, giudicarle secondi i canoni conformistici e morali della nostra attualità. Entrambe, indistintamente, possiamo considerarle due forme diverse di cancel culture, tra i segmenti più influenti dell’ideologia del politicamente corretto.
Come riportato dal Telegraph, anche William Shakespeare e Thomas Jefferson sono caduti vittima della cultura della cancellazione. Non due qualsiasi, ma rispettivamente il più importante poeta inglese ed uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, alla Casa Bianca dal 1801 al 1809. L’opera teatrale shakespeariana in discussione è La Tempesta, una delle ultime del grande drammaturgo, che racconta la storia di Prospero, duca di Milano in esilio, dovutosi rifugiare con la figlia su un’isola incantata dopo il naufragio della barca. Qui, pone in schiavitù l’unico abitante dell’isola, Calibano. Per il Globe Theatre – proprio il teatro londinese in cui recitava la compagnia di Shakespeare – questo è bastato per liquidare la commedia come “razzista” e “colonialista”, definendola pure “problematica”.