Nel grande bizantinismo della politica italiana, nell’eterno suk da Transatlantico, nel perenne gioco tattico senza strategia, nella gran fiera delle convenienze prevalenti sulle convinzioni, dovrà pur venire un piccolo momento della verità, della chiarezza, di una linearità finalmente comprensibile per i cittadini. Il governo Conte già non c’è più: nelle Aule di Camera e Senato, di fatto, non si vota da mesi (tranne rare eccezioni) proprio perché la maggioranza è liquefatta.
Ciò che piace ai grillini non piace a Renzi (e viceversa); se si andasse a uno showdown onesto sul Mes, la maggioranza si squaglierebbe (o cambierebbe in modo clamoroso). Imponendo l’inevitabile, anzi rendendo indispensabile ciò che sarebbe già accaduto da tempo per un governo meno protetto istituzionalmente: salita al Colle del Presidente del Consiglio e dimissioni, per essere rinviato alle Camere o sostituito da altro Presidente incaricato. Purtroppo però nella terra del “quasi”, il governo è solo quasi morto, quasi caduto, quasi archiviato.
E il “quasi” può durare ancora settimane (fino a un incidente magari imprevisto e casuale) o mesi (fino al momento deciso dagli ex sodali di Conte, quelli che prima gli hanno consentito di tutto, e che poi lo scaricheranno, più che altro che salvare se stessi). E allora ecco perché servirebbe un momento di verità. Chi vuole sfiduciare Conte, lo faccia subito in modo chiaro. Se si tratta di un partito che ha una presenza al governo, ritiri i ministri. Se si tratta di forze parlamentari, proclamino la sfiducia. Lo facciano in modo chiaro, spiegando il percorso successivo da loro auspicato.
Il mio auspicio è doppio.
Primo: che questo accada, per quanto si tratti purtroppo di un’eventualità improbabile. Secondo: che il centrodestra arrivi unito all’appuntamento della crisi, senza farsi disarticolare. Se Lega, Fdi e Fi, pur nelle loro evidenti diversità (che di per sé non sarebbero un problema: una coalizione deve avere sfumature differenti), attraverseranno unite quel passaggio politico, potranno non solo essere determinanti per imporre un governo (e perfino per guidarlo, numeri alla mano), ma soprattutto per fissarne la scadenza (10–12 mesi) e un auspicabile ritorno alla fisiologia democratica e alle urne al massimo nella primavera del 2021.
Se invece, per una ragione o per l’altra, il centrodestra si lascerà dividere, saranno guai per tutti. Chi si farà lusingare da sirene governiste, svolgerà un ruolo subordinato rispetto a Pd e grillini, e chi resterà – pur coerentemente – all’opposizione dovrà prepararsi a una lunga e difficile traversata nel deserto.
Stando uniti, invece, tutto potrebbe essere diverso, e perfino carico di opportunità, pur in un momento così drammatico.
Daniele Capezzone, 4 maggio 2020