Il magistrato Nino Di Matteo, simbolo della lotta alla mafia e attualmente consigliere del Csm, intervenendo in diretta nella trasmissione televisiva Non è l’Arena di Massimo Giletti ha dichiarato che «il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede mi propose al Dap ma poi ci ripensò». I motivi del ritiro della proposta, dal racconto dei fatti esternati dal magistrato antimafia Di Matteo, sarebbero riconducibili alle intercettazioni dei boss che reagirono con fastidio alle indiscrezioni sulla sua designazione al Dap. «Se nominano Di Matteo è la fine», così si sarebbero sfogati i boss intercettati dal gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria (Gom).
Di Matteo con tono pacato e sicuro, senza alcun tentennamento, ricostruisce i rapporti di interlocuzione con il Guardasigilli: «A giugno 2018, il ministro Bonafede mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo per dare una risposta». Quando Di Matteo sciolse la riserva, optando per il Dap, il ministro lo informò di averci ripensato, preferendogli nel ruolo Francesco Basentini, che di recente si è dimesso per le polemiche scaturite in seguito alle rivolte nelle carceri e alla concessione degli arresti domiciliari ai detenuti, fra cui il boss Pasquale Zagaria, in regime carcerario del 41 bis.
Come si potrebbe giudicare la scelta di un ministro della Repubblica che, dal resoconto del magistrato Di Matteo, appare suscettibile alle preoccupazioni dei mafiosi? La reazione immediata mi suggerisce l’aggettivo esecrabile, perché dal comportamento esitante ed ambiguo di Bonafede può apparire che lo Stato indulga e ceda ai ricatti dei mafiosi. Un messaggio devastante per la credibilità dell’apparato statale che non può continuare ad affidare l’amministrazione della giustizia ad un ministro inadeguato alla funzione che, per la vicenda connessa al Dap, può apparire vulnerabile alle pressioni dei boss verso cui, invece, lo Stato deve dimostrare la ferrea e indomita contrapposizione.
Dallo scontro fra Di Matteo e Bonafede emerge il quadro desolante della politica italiana e conferma la degenerazione del M5s che doveva agire per fustigare le distorsioni del potere, ma ne sono diventati servi continuando ad indossare la maschera ingannevole della diversità. Più governano e più la maschera si scuce dai loro volti bigotti. Il ministro ha replicato a Di Matteo dichiarandosi «esterrefatto», ma ad essere esterrefatti, in preda al terrore, sono i cittadini che vorrebbero un ministro della Giustizia non in “Malafede”.
Andrea Amata, 4 maggio 2020