Via via che, per evitare trattamenti discriminanti, si estendono i regolamenti, si restringe la discrezionalità e con essa, a ben riflettere, gli spazi di libertà. Lo spiego con un esempio. Mio padre, funzionario di un ente previdenziale, segnalò a un amico imprenditore il caso di un operaio che aveva perso il posto per la chiusura della fabbrica. L’uomo venne assunto come guardiano e, trattandosi di bravissima persona, si rese così utile all’azienda che ogni volta che il titolare incontrava mio padre non finiva di ringraziarlo per quell’ ’acquisto’. Se il buon uomo si fosse rivolto all’ufficio di collocamento o al sindacato, probabilmente, avrebbe fatto una trafila che chissà come sarebbe finita.
I rapporti personali di fiducia, in realtà, non sono ruggine ma olio nella macchina della modernità. Quando zì pret (l’immancabile familiare che aveva preso i voti) raccomandava un suo protetto — ‘è un gran lavoratore’, viene da una famiglia perbene etc..— faceva riferimento a valori ‘comunitari, ancestrali, divenuti oggi incomprensibili ma non pertanto degni di esecrazione.
Certo, l’assoluta discrezionalità, innegabile nel rapporto di raccomandazione, è innegabile ma a porvi rimedio sono le regole o l’etica sociale che le produce e le fa rispettare? Il Rettore di una grande Università statale, per compensare un suo elettore (che gli aveva procurato la decina di voti in più sufficiente per farlo eleggere) aveva fatto modificare lo Statuto di Ateneo per consentire al collega di non dimettersi dal Centro universitario da lui diretto al sopraggiungere della pensione: se lo avesse conservato nel suo incarico dietro una forte raccomandazione, si sarebbe gridato allo scandalo, con la copertura delle nuove disposizioni in materia, il suo esdebitamento elettorale risultava ineccepibile.
Morale: brutta, bruttissima cosa è la raccomandazione, ma non dimentichiamoci che i ‘favori illeciti’ non hanno più bisogno di questa risorsa che ormai sa tanto di ‘piccolo mondo antico’.
Dino Cofrancesco, Paradoxa—Forum giugno 2019