Pillole Ricossiane

Diffidate dagli economisti che si buttano in politica

Gli scritti di Sergio Ricossa, economista e liberale vero, per leggere il presente

Sergio Ricossa è stato un grande economista e un grande scrittore. Divulgatore appassionato, ha sempre avuto uno stile sobrio (lui diceva “empirico”), di stampo anglosassone e amante dell’umorismo e del paradosso. Era una persona mite e gentile che seppe essere polemista ironico e spesso autoironico, scrivendo aforismi taglienti e libri dai titoli forti e all’apparenza provocatori (I pericoli della solidarietà, Come si manda in rovina un paese, Elogio della Cattiveria, Fuochisti della Vaporiera, Storia della Fatica, Maledetti Economisti, tanto per ricordarne solo alcuni).

Ma soprattutto fu un grande studioso (e sulla sua opera accademica torneremo nei prossimi articoli) che non coltivò ambizioni di tipo politico, nonostante fosse corteggiato dalla politica, come ci ricorda nel suo libro Da liberale a libertario (Leonardo Facco Editore 1999): “A un bel momento ho deciso di rinunciare alla carriera politica, qualunque fosse l’allettamento che veniva dai partiti. Ho rifiutato offerte liberali, democristiane e perfino socialiste (i partiti non guardano per il sottile, prendono chi ritengono faccia loro comodo e non si preoccupano delle etichette)”.

Per un liberista e libertario è evidente che gli ambienti e le logiche di partito andassero stretti, ma una delle questioni meno gradite a Ricossa era la tentazione degli economisti di intraprendere carriere politiche o di assumere cariche all’interno della macchina statalista, che a suon di lauti stipendi annacqua i princìpi e allontana dagli studi: “Ho rinunciato per starmene tranquillo fra i miei libri. Ho rinunciato a tutte queste ambizioni che soprattutto gli economisti hanno, perché gli economisti finiscono presto o tardi nello stato. O in modo sfacciato o in modo meno sfacciato. E poi passano per grandi economisti, anche se hanno rinunciato completamente agli studi per guadagnare quattrini con questa presidenza assegnatagli da un partito, o quell’altra presidenza assegnatagli da un altro partito… son tutti “presidenti” di qualcosa”. [Ibid]

  1. Perché gli “economisti in carriera” scelgono lo statalismo
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A quel punto le probabilità di perdere il contatto con la realtà sono elevate, sacrificando lo studio e l’aggiornamento nonché allontanandosi dal sistema produttivo ed imprenditoriale: “Naturalmente non diventano presidenti di imprese private, perché i privati si guardano bene dall’affidare il loro destino a un economista teorico. Sono allora tutti a capo di istituzioni pubbliche, che tra l’altro non prevedono l’obbligo, alquanto problematico, di realizzare dei profitti. Lo stipendio però c’è, ed è eccellente, e la carriera politica rende famosi. Quella accademica molto meno” [Ibid]

Si fa presto a dire “economisti”, ma bisogna leggere attentamente le istruzioni sull’etichetta perché, parafrasando il don Mariano di Sciascia, ci sono economisti, mezzi economisti, economisticchi, etc…

Fabrizio Bonali, 20 luglio 2023