Amo leggere le lettere di licenziamento e di dimissioni. Lì si vede, in filigrana, lo spessore delle persone coinvolte, e la loro capacità di metabolizzare la sconfitta. Solo a quel punto ti puoi mettere alla tastiera, spogliarti, e scrivere, scrivere. La scrittura è meglio dello psicanalista, lei non tradisce, mai.
La lettera più bella che ho scritto fu quella al mio Presidente Gianni Agnelli, quando Fiat mi licenziò. In realtà, non fu un licenziamento classico, ma un invito a guardare la carta d’identità dove risultava che, in effetti, avevo 60 anni. Quindi dovevo rispettare la Legge e l’Inps. La motivazione vera me la diede, in amicizia, Umberto Agnelli. Mi disse: Non possono mandare una lettera di licenziamento motivandola con “per eccesso di successo”. In effetti avevano ragione loro, si trovarono sul crinale della razionalità, non volevano licenziare il manager, verso il quale c’era, anzi, grande rispetto e riconoscenza, ma l’uomo, la sua indipendenza intellettuale, non più compatibile con il tabernacolo aziendale.
Ci misi un paio di settimane a metabolizzare il fatto, poi capii che la loro scelta era stata un atto a mio favore. Mi avevano dato l’opportunità di cambiare vita, regalandomi a piene mani autostima (ci campo tuttora). Scrissi al Presidente articolando e contestualizzando i ringraziamenti: ero io che ringraziavo loro per aver tagliato questo cordone ombelicale che ci portavamo dietro da 42 anni. I consiglieri del Principe non capirono, pensarono a un’irrisione, così lui non rispose. Sbagliarono, come tutte gli staff erano ottusamente programmati a non ragionare fuori dagli schemi.
Per me fu subito una seconda vita, una vita meravigliosa, che dura tuttora, neppure il Cancro è riuscito (per quanto non so) a penalizzarla. Da un lato, rifiutando un ricco patto di non concorrenza (pur sapendo che mai avrei lavorato per la concorrenza), fui libero di “monetizzare” professionalmente questa mia storia di successo, dall’altro decisi che avrei cercato di imparare più cose possibili su come sarebbe evoluto il mondo. Riflessioni pregiate da lasciare ai miei nipotini, visto che ero vissuto tanti anni nella stanza dove, curiosamente, c’erano più bottoni che idee. E capii che le stanze dei bottoni di costoro sono tutte così, dimesse, miserabili, perché prive di intelligenza sociale. Scelsi invece di mettermi a disposizione, culturalmente, dei miei connazionali per far loro capire come funzionava il modello economico, politico, culturale che stava nascendo; molti anni dopo l’avrei chiamato Ceo capitalism. Divenni via via una persona più buona, più colta, più ironica. Il licenziamento mi aveva migliorato, molto. E lo dovevo a loro.
L’altro giorno sfogliando Twitter ho trovato la lettera di dimissioni di una collega che non conoscevo, Debora Billi. Leggo “capitana storica della comunicazione web dei 5 Stelle”. Mi è piaciuta molto. Si capisce che è stata scritta di getto, se l’avesse fatto fra un mese probabilmente avrebbe metabolizzato in modo diverso il dolore. Di certo, riflettendo, forse non avrebbe scritto la frase chiave della lettera: “Oggi mi allineo a tanti altri amici e dico addio al Movimento. L’obbrobrio che si è consumato nel Palazzo ha superato in nefandezze il golpe del 2011 e la mano che ha riconsegnato il mio Paese ai carnefici della Grecia stavolta porta il nome del M5S. Ho dato il mio ultimo Oxi (No) a Rousseau”. E poi chiude: “Non devo più fedeltà a nessuno, Gianroberto è morto, ma mi piace pensare che avrebbe approvato”.
Chissà se Debora Billi ha la percezione di cosa significhi vivere nel mondo della comunicazione del Ceo capitalism post Trump. Lei non ha, credo, l’età, soprattutto lo status, per usare in modo così disinvolto concetti come “golpe 2011” o peggio “carnefici della Grecia”. Soprattutto non sa che gli eventi su 2011 e Grecia sono già Storia, chiusa, infiocchettata e certificata. Quelle locuzioni non sono ammesse, toccano nervi che per lor signori saranno sempre scoperti, fantasmi da cui cercare di liberarsi.
Consiglio a Debora un libro edito da Medusa nel 2010, lo si trova in Rete: Brodskij 1964, un processo. E le consiglio pure l’album immortale Hotel California degli Eagles. Nel momento in cui la politica si fa Hotel California o scappi o, se resti, nasconditi nelle braccia della poesia, in attesa di tempi migliori, come fece Iosif Brodskij. Auguri.
Riccardo Ruggeri, 9 settembre 2019