Proviamo a riassumere la situazione. Alla ripartenza dopo 70 giorni di reclusione l’Italia si trova davanti a una crisi dalle molte facce: finanziaria, economica, sanitaria, istituzionale. Logora e indebolita, è in grave pericolo. Sul fronte finanziario è vitale per noi lo sforzo della Bce di acquistare, sul filo delle regole europee e anche oltre, grandi quantità di titoli del nostro debito pubblico. Tuttavia, comperando al ritmo attuale, la Bce rischia di esaurire entro agosto l’iniziativa Pepp (Pandemic Emergency Purchase Programme) da 750 miliardi.
Sempre ad agosto, ai primi del mese, scade il termine imposto alla Bundesbank dalla Corte costituzionale tedesca per motivare gli ingenti acquisti di titoli effettuati in passato dalla Bce e condivisi da Francoforte. Anche se ciò non dovesse portare atti immediati, è plausibile ritenere che ne deriveranno limiti all’azione della Bundesbank – e per conseguenza della Bce. L’acquisto di titoli italiani potrebbe ridursi, anche in misura considerevole. Il Recovery fund, in cui erano riposte molte speranze, sembra ormai uno di quei fairy tales che Wolfgang Munchau, sul Financial Times, descrive come tipica retorica di Bruxelles: da 1500 miliardi subito si è passati a 500 miliardi chissà quando.
Sul fronte economico la struttura produttiva italiana – medie e piccole imprese forti sui mercati internazionali, un gran numero di lavoratori autonomi, molto sommerso – ci espone più di altri alle scosse da pandemia. In più la confusione delle norme emanate dal governo, l’invasivo dettaglio dei vincoli, l’aleggiare indeterminato di sanzioni, anche penali, ostacolano o scoraggiano la ripresa del lavoro. È facile prevedere una diffusa perdita di attività e molta disoccupazione.
Anche sul fronte sanitario si riprende al buio: pochi tamponi, niente app di monitoraggio, sporadiche indagini epidemiologiche. Non c’è una rete di sicurezza e i timori, cresciuti durante un’esperienza frustrante e inedita, faticano a dissolversi: difficile che in questo clima possano fiorire lo slancio e la fiducia indispensabili, come dice De Rita, per rimettere in moto vita, produzione, commerci.
Infine sul lato istituzionale si aggravano disfunzioni che durano da decenni, almeno dal 1992-94. Il conflitto tra Stato e Regioni tocca l’apice, mentre i Comuni si scontrano con tutti; il Parlamento vede erodersi non solo il potere legislativo ma anche la capacità di controllo; si affermano strumenti impropri, come i Dpcm, e la qualità dei testi normativi s’inabissa. Mai come ora si avverte il bisogno di una Grande Riforma.
In Europa gli altri Paesi affrontano il virus potendo contare su un assetto statale che funziona. L’Italia si scopre nell’emergenza con un sistema politico ingessato che non crea alternative alla vanità di un governo sbandato. Nella maggioranza i due soci principali, diversi per storia e sentimenti, non trovano una sintesi strategica e ripetono la dinamica rissosa che un anno fa portò alla caduta del Conte 1. L’opposizione fa proposte inascoltate e, com’è naturale, sembra perplessa di fronte alla prospettiva di caricarsi il peso del disastro incombente.
Il ragionamento corrente è che non si può cambiare la guida durante l’emergenza. Forse il concetto va ribaltato: per uscire dall’emergenza occorre cambiare la guida che finora l’ha aggravata. Meno conferenze, meno dpcm, più libera iniziativa, più fiducia.
Antonio Pilati, 19 maggio 2020