Rassegna Stampa del Cameo

Dopo il Covid, un’altra peste ci riduce in schiavitù

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Più passano gli anni, specie quest’ultimo, più il Ceo capitalism, la peste di quest’epoca, appare invincibile. Io lo studio da tanti anni, non può essere così, oggettivamente. I suoi gestori, nell’infinita arroganza che li connota, non sanno che qualsiasi attività umana deve sottostare alla legge della “foglia di tiglio”: nulla e nessuno è immortale. C’è una zona, fra la spalla e la scapola del nibelungo Sigfrido, in cui il sangue del drago, grazie a una provvidenziale foglia di tiglio, non lo ha bagnato, togliendogli così l’immortalità. Se lo colpisci lì, fra la scapola e la spalla, Sigfrido muore. Così sarà per il Ceo capitalism, un modello concepito per un’umanità nana, da nani nibelunghi (il popolo germanico delle nebbie).

La mattina di Pasqua ricevo una telefonata da una meravigliosa “personcina” (copyright del poeta Giovanni Raboni) che mi dice: “Sono positiva, per un paio di giorni sono stata molto male, ora sto meglio”. Impeccabile la sua auto diagnosi: “Una profonda, infinita stanchezza e la sensazione soffocante di respirare anidride solforosa”. La diagnosi funziona anche per chi il virus di Wuhan non l’ha preso. È esattamente cosa ho provato, psicologicamente, in quest’anno trascorso in casa, fra il lockdown “obbligatorio” dell’osceno duo Conte-Speranza e il mio lockdown “volontario” (dura dal primo ottobre). Mi sono rifiutato di usare il cinese Zoom per guardare da lontano i miei nipoti, le mie nuore, i miei figli. Non puoi guardare negli occhi chi ami, avvalendoti della tecnologia della distrazione. Meglio la voce, così colgo le sfumature profonde del loro essere, del non detto. Ma non mi basta. Sento un bisogno lacerante di accarezzarli, e al contempo avere la bocca libera per sorridere, con loro.

“Una profonda, infinita stanchezza ..” la mia. È così, anche nell’accezione del libro di Byung-Chul Han, letto una decina d’anni fa. Ne La Società della Stanchezza il professore sudcoreano si era convinto che stressare gli obiettivi, alzando di continuo l’asticella, per essere sempre più competitivi, redditivi, competenti, efficienti ed efficaci, ci avrebbe ridotto in schiavitù. In realtà aveva semplicemente descritto il Ceo capitalism. Di qua la mia sintesi di allora: “Stanchezza da ottimizzazione”. Questa stanchezza ha un’origine profonda. Da trent’anni il Ceo capitalism ha tentato di inculcarci due osceni concetti:

1. “Se fallisci è solo colpa tua!” Sarebbe accettabile, aggiungendo però: “a parità di condizioni di partenza”. Invece, sostituito l’ascensore sociale con la cooptazione, eliminata la meritocrazia, il vecchio mantra neoliberal è diventato un falso d’autore. Ormai il tuo destino è segnato alla nascita, come nel Medioevo: se non fai parte del suo giro, sarai plebe; se ne fai parte, sarai servitù. In entrambi i casi, sarai un fallito, e devi pure sentirti in colpa!

 2. Se “ottimizziamo” la nostra vita lavorativa, dicono, possiamo avere il carburante (quattrini e potere) per “ottimizzare” il nostro stile di vita, cioè consumare sempre più prodotti, fino a diventare noi stessi “prodotti”. Per una persona di normale intelligenza e umanità un’idiozia, per un sociopatico del sapere digitale un obiettivo alto.

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