L’uomo che sapeva troppo. Mentre sulle nostre tavole si serve l’agnello pasquale sta spuntando un capro espiatorio nell’“affaire Striano”. Partendo da due morti tragiche, uno suicida, l’altro assassinato, si rivelano gli ultimi inquietanti tasselli della strana vicenda che ha coinvolto Pasquale Striano, il tenente della Guardia di Finanza con “licenza di caccia” via Sos – Segnalazioni di operazioni sospette. Proprio lui che, una volta scoperto, si è vantato di aver “scaricato” molti di più degli oltre trentatremila accessi – tra ministri, vip e Vaticano – che gli vengono contestati.
Un traboccante vaso di Pandora che ora rischia di travolgere i Palazzi del potere (generali 007 magistrati) e su cui il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, sta tentando di fare luce. Tutto nato dal coraggioso esposto di Guido Crosetto che ha dato il via all’inchiesta “dossieraggi” dopo alcuni articoli apparsi sul quotidiano Domani di Carlo De Benedetti. Ed è possibile che venga pure riaperto il caso dello strano suicidio di un finanziere, avvenuto nell’aprile 2016 e all’epoca chiuso frettolosamente dalla Procura di Roma, sul quale i familiari del defunto non si sono mai rassegnati a conoscere la verità. Si tratta della morte del tenente colonnello Omar Pace, 47 anni. Per lungo tempo fu il capo di Pasquale Striano, lavoravano fianco a fianco per setacciare quella massa “monstre” di informazioni che arrivava al loro ufficio dalla Banca d’Italia – di cui si sta parlando poco – e dagli altri “centri” di raccolta dati.
Il giorno prima del suicidio, l’ufficiale avrebbe dovuto testimoniare al processo a Reggio Calabria sull’ex ministro degli Interni Claudio Scajola e sull’ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena – quest’ultimo poi morto latitante a Dubai nel settembre 2022-. Le indagini riportano che Pace si sparò con la pistola d’ordinanza nel suo ufficio della Dia al Polo Anagnina. L’inchiesta stabilì che il suicidio era dovuto a motivi personali legati a drammi familiari – la morte della sorella, gravemente malata, di un anno prima e quella del padre, avvenuta addirittura cinque anni prima- così venne archiviata. La vedova del finanziere, Barbara Basciano, non ha mai creduto al suicidio, anche perché suo marito nei giorni precedenti era andato a comprare il vestito per la cresima del figlio e aveva persino prenotato una vacanza.
Inoltre, la signora ha raccontato che mentre la informavano della morte del marito, sono piombate in casa venti persone in borghese per portare via effetti personali, computer e telefoni del defunto. Il biglietto lasciato dal marito con scritto “Ti ho sempre amata, pensa ai bambini”, non l’ha mai convinta. Degli oggetti personali portati via, invece, le sono stati restituiti solo la fede nuziale ed un orologio, peraltro chiusi in una busta di plastica sporca di sangue. È probabile che la morte di Pace sia stata per Striano causa di forte tormento e ciò giustificherebbe il suo particolare attivismo nel sindacato Silf, soprattutto riguardo la salute mentale degli agenti della Finanza. Il legame umano e professionale era forte, avendo peraltro ambedue vissuto con grande turbamento le obiezioni che venivano loro mosse dai superiori dell’epoca, Nunzio Ferla, dal 2014 al 2017 direttore della Dia e poi transitato nel gabinetto della ministra Mara Carfagna e Giacobbe Fois, detto Bobbo. Entrambi contestavano ai due militari l’uso spesso oltremisura delle Sos nei rapporti con la magistratura.
A distanza di anni, proprio Striano, nell’intervista rilasciata a Giuseppe Pecoraro della trasmissione Le Iene, parla convinto della necessità degli scambi tra le procure per far girare le informazioni. E qui salta fuori, forse senza nemmeno che se ne renda conto, la conferma della “dimestichezza” sull’argomento infatti, all’osservazione del giornalista: “Quando Falcone l’ha inventato non era questo”, Striano risponde lapidario: “lo so, infatti per quello poi è morto subito”. Una frase non proprio sibillina che associa un terribile assassinio alle modalità delle sue investigazioni.
Nella lunga intervista a Le Iene, il tenente delle Fiamme Gialle consegna l’ennesima variante sul suo ruolo nella vicenda e scherza pure sulle sue intromissioni sul cantante Fedez, affermando con nonchalance: “Fedez non me lo ricordo, sarà stato una mia curiosità”. Soprattutto però tenta di “scagionare” -come invece non aveva fatto nelle dichiarazioni precedenti- i suoi diretti superiori, il magistrato co-indagato Antonio Laudati e il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, oggi contestato componente grillino della commissione parlamentare Antimafia presieduta da Antonella Colosimo, fedelissima della premier Meloni. La Colosimo finora ha fatto muro nel non voler interrogare Striano in Commissione in ossequio alla magistratura e forse anche a Palazzo Chigi che su questa vicenda è insolitamente silente, ma ora dopo l’intervista non potrà che aderire alle richieste che vengono dai commissari di audirlo magari in sessione secretata. Se ne sentiranno delle belle.
Oggi Striano, salvo ripensamenti, cerca di circoscrivere i fatti che lo riguardano ad un mero scambio di informazioni con alcuni giornalisti d’inchiesta e testualmente dice: “Gli input più importanti mi venivano da fuori”. Vien naturale chiedersi ‘fuori’…da chi? E, sul punto, la risposta è disarmante: “Dall’amico giornalista e dal collega”. Se si spera che quest’ultimi fossero autorizzati da qualcuno, i primi di sicuro non lo erano. Sta di fatto che la nuova strategia difensiva del finanziere verso la pensione è quella di venire accusato solo per il reato di cui all’art. 615 ter c.p. ”Accesso abusivo a un sistema informatico o telematico” che prevede una pena da 1 a 5 anni di reclusione per un pubblico ufficiale. In questo modo riuscirebbe a non svelare chi sono i suoi “danti causa”.
Tuttavia da Perugia sembra che adesso il cerchio si stia chiudendo. Con questo atteggiamento riduttivo sulla sua attività, per Striano è fondamentale cercare di evitare un addebito penale grave ovvero lo “spionaggio politico”, nonché l’appartenenza ad un’associazione a delinquere finalizzata allo “spionaggio politico”, reato contemplato e punito dagli articoli 257 e 258 del codice penale con pene non inferiori a 10 anni di reclusione. Il signor tenente forse avrebbe fatto bene a rispondere con un bel “Signornò”.
Luigi Bisignani per Il Tempo 31 marzo 2024
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