Draghi affetto dalla “sindrome Monti”

L’agenda del governo si appiattisce su quella dei partiti. E l’elefante SuperMario ultimamente partorisce solo topolini

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Il bracco ungherese di Mario Draghi ha un vantaggio rispetto al piccolo maltese bianco di Mario Monti: non è stato scelto in diretta tv, quindi potrebbe contare sulla fedeltà che il professore in loden non riservò al cagnolino messogli in braccio da Daria Bignardi alla vigilia del voto del 2013. “A tradimento”, ebbe a dire il senatore a vita, confessandosi qualche mese dopo da Lucia Annunziata.

Cani a parte potremmo vedere negli ultimi comportamenti di Draghi i primi sintomi della “sindrome di Monti”. E non è una buona cosa per il Paese né per gli italiani sempre smemorati.

Super-Mario è un appellativo che va bene a entrambi. Come quello di “super-tecnico”. Entrambi sono stati chiamati direttamente dal Quirinale, come uomini della provvidenza. Monti per evitare il baratro finanziario (vero o presunto) al Paese. Draghi per poter cogliere una opportunità unica di “ripresa” con il Piano post-Covid. Entrambi, dopo qualche mese di dedizione al salvataggio dell’Italia, sembrano accomunati da una irrefrenabile voglia di guardare oltre.

Monti pensò a un partito in vista delle elezioni politiche, “Scelta civica”. Draghi sembra intimamente sedotto da un altro appuntamento elettorale, quello del Quirinale. Nonostante i ripetuti dinieghi è difficile trovare altre ragioni ai tentennamenti del nostro presidente del Consiglio. L’ultimo balbettio, in ordine di tempo, è quello riservato al Dl Concorrenza. Un elenco di occasioni perdute: dall’ennesimo rinvio per le gare delle concessioni demaniali marittime – nel perfetto stile Conte, e nell’esatto contrario di quello spirito europeo che Draghi ha respirato per anni a Francoforte – a quelle degli ambulanti, alle incertezze sul trasporto locale, sui taxi, e sui servizi locali in generale.

L’agenda del Governo sembra essersi appiattita su quella dei partiti, e non viceversa, come era lecito aspettarsi. E come sembrò essere con il licenziamento di Arcuri a favore del generale Figliuolo. Dopo quell’alzata di testa abbiamo assistito a una piccola prova di forza sul green pass. E niente altro. La riforma della Giustizia, intestata a Marta Cartabia è una legge delega che ricalca sostanzialmente la riforma Bonafede. Le politiche per il lavoro sono in area di sosta da mesi. La delega fiscale? Binario morto. Tutto affidato agli equilibrismi dei partiti, azionisti di un Governo dalla maggioranza parlamentare bulgara, ancor più solida di quelle del professor Monti.

Eppure, ora come allora, lo sguardo del premier si abbassa, non fissa più l’orizzonte, ma gli scranni del Parlamento.

Monti ebbe l’ardire di chiedere – prima dell’incarico a Palazzo Chigi – una sorta di lasciapassare sul futuro, con la nomina a senatore a vita. Draghi è in condizione forse di determinare da solo, senza dover immaginare la costituzione di un partito, il proprio percorso istituzionale, negoziando con i partiti e i loro “piccoli” leader.

La statura degli altri lo rende gigante, più di quanto la propria autorevolezza – costruita al servizio delle istituzioni italiane ed europee – possa garantire: Draghi, anche per questo, ha assunto un comportamento politico incomprensibile. Aveva tutto per mostrarsi indenne dalla sindrome di Monti: eppure l’aria di Palazzo Chigi sembra aver ancora una volta turbato l’equilibrio dei suoi inquilini. Non ha bisogno del musetto ammiccante di “Empy”. Il cane da caccia di Draghi è meno smorfioso, non fa la gara del consenso. Per ora. Il suo padrone invece, sembra aver già compreso la necessità di riconvertirsi “piacendo” un po’ a tutti, a turno. In una girandola di apprezzamenti per ora non scalfiti. Ma da febbraio nessuno sarà più come prima. Nemmeno lui, il secondo super-Mario di Palazzo Chigi.

Antonio Mastrapasqua, 9 novembre 2021

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