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Draghi, il miglior antidoto allo statalismo

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Fa una certa impressione rileggere oggi le parole di Mario Draghi, il giorno della festa della Repubblica del 1992. Avevano da poco ammazzato il giudice Falcone e Draghi era direttore generale del ministero del Tesoro. Salì e poi rapidamente sbarcò dal panfilo Britannia, proprietà di sua Maestà la Regina d’Inghilterra, affittato, per l’occasione, dalla Confindustria delle imprese finanziarie britanniche. È all’origine, quella breve crociera, di tutte le teorie complottiste sulla cosiddetta svendita dell’Italia.

Margaret Thatcher come riferimento

Quel breve discorso sarebbe da rileggere per capire il campo di azione ideologico di Draghi. Con il suo stile asciutto, colui che poi diventò presidente della Bce, spiegò, in termini generali, per quale motivo procedere ad un piano di privatizzazioni: per smontare «un sistema economico in cui sussidi a famiglie ed imprese hanno ancora un ruolo importante». La vendita delle aziende di Stato non doveva essere concepita per fare cassa, per ridurre il deficit, ma per ridurre il debito. Draghi, con una posizione che oggi qualcuno potrebbe definire liberale da cocktail, spiegò i motivi più seri per rimettere sul mercato aziende pubbliche.

Occorreva liberare le imprese dalle «interferenze della politica», ma al tempo stesso proteggere gli azionisti di minoranza. Si sarebbe dovuto cedere monopoli sul mercato, ma al tempo stesso incentivare la concorrenza e deregolamentare. Si sarebbe dovuto sostituire la carta del debito pubblico con l’aumento della partecipazione azionaria e il miglioramento dei mercati finanziari. Si scherniva, all’epoca, Draghi: «Non vedo Thatcher in circolazione». Eppure il suo era un piano decisamente thatcheriano, sia pure modificato grazie all’esperienza del passato.

Draghi, medicina anti-statalista

Molti ritengono che quel piano sia fallito. La parte dei collocamenti ha funzionato, quella delle regole del gioco molto meno. Ma la controprova di ciò che sarebbe successo se non si fosse venduto nessuno può averla. Ciò che oggi vediamo è piuttosto una rinazionalizzazione dell’economia. Un allargamento dei confini delle partecipazioni pubbliche, un riappropriarsi di spazi da parte di gestori fuori mercato alla Arcuri. Assistiamo al pericoloso pregiudizio per il quale al fallimento del mercato si possa rispondere sempre e comunque con l’intervento pubblico. Molto più recentemente, sul Financial Times, lo stesso Draghi ha dimostrato di ben capire il livello di crisi in cui versa l’economia reale, senza però prospettare facili soluzioni a carico del bilancio pubblico.

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