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Draghi prigioniero di partiti e Mattarella

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L’altro giorno, nel commentare le convulsioni in casa grillina e le possibili ricadute sul governo, Mario Draghi ha lanciato i suoi strali anche su chi annuncia a settembre “sfracelli”. Anche se non lo ha nominato, è evidente ch si riferisse a Matteo Salvini. Si è trattata di un’uscita infelice da un punto di vista politico: perché aprire un altro fronte all’interno della maggioranza proprio mentre quello con i Cinque Stelle rischia addirittura di far cadere il governo?

Pur nella sua impoliticità, l’affermazione di Draghi ci fa capire però quale deve essere in questo momento lo stato d’animo di colui che fu il rispettato governatore della Banca centrale europea e che ora si trova impelagato nel vivo della furibonda e confusa lotta politica italiana. Probabilmente, egli si sente prigioniero, impossibilitato a spiccare il volo. In particolare, stretto in una morsa di tenaglia da cui è difficile liberarsi: da una parte, costretto a mediare con i partiti, che non è proprio il mestiere del decisore tecnico e di un grand commis, e che soprattutto porta inevitabilmente ad annacquare ogni decisione presa (il “lasciatemi operare” in politica è espressione assolutamente non pertinente); dall’altra, costretto dal presidente della Repubblica, e in generale dal senso di responsabilità, a provarle tutte  per restare e a non sbattere la porta in faccia come forse spesso sarebbe tentato di fare.

Ma se questa analisi è corretta, se cioè Draghi non è intenzionato a restare al governo a tutti i costi, e cioè a gestire una guerriglia politica preelettorale che lo logorerebbe sicuramente, quello che ne consegue è che oggi Mattarella è l’unico a volere veramente o più di tutti che questo esperimento di governo, da lui messo in piedi un anno e mezzo fa, continui fino alla scadenza naturale della legislatura. Che i partiti, chi più chi meno, vogliano il voto, o comunque non credino più a questo governo, è evidente da tanti elementi, anche se poi è solo il Movimento Cinque Stelle (o quel che ne resta) che si è esposto. Fatta la tara dei richiami canonici alla responsabilità, non si vede in verità una netta presa di posizione contro i Cinque Stelle da parte dei partiti. Letta non sembra che si stia muovendo più di tanto per far “rinsavire” l’alleato. Anzi, aver sottolineato che “se cade il governo si va al voto”, lo ha avvicinato a Salvini che ha detto la stessa cosa anche se con diverso (e indignato) effetto mediatico. Che poi andare subito alle urne sia una scelta saggia, per l’Italia o anche solo per ogni singolo partito, è tutto da dimostrare.

Certo, i partiti oggi sono molto “solubili”, e non bisogna prendere troppo sul serio le loro affermazioni, pronti come sono a contraddirle in men che non si dica se ne vedono l’utilità. Non è dubbio però che se la crisi rientrerà, se comunque l’esito del voto non ci sarà, se si troverà qualche escamotage che salvi la faccia a Conte e tenga in piedi Draghi, ciò sarà solo per la moral suasion del presidente della Repubblica. Il quale vuole, ha fatto sapere, che tutti i prossimi passaggi (legge di bilancio, PNRR, ecc ecc.) avvengano “ordinatamente” e che si voti alla scadenza naturale della legislatura (c’è persino una data, il 23 maggio del 2023). Da un punto di vista formale-costituzionale è tutto lecito, ovviamente. Né è qui in questione se sia nell’interesse generale del Paese mantenere uno status quo che dà una parvenza (solo quella) di stabilità e serietà all’Italia. Quel su cui occorre riflettere è il fatto che, vivendo una crisi che non ha precedenti in età repubblicana, quei limiti insiti nella nostra Costituzione sono venuti ora fuori di colpo. A cominciare dall’atipicità di un Presidente della Repubblica non eletto, ma con le funzioni proprie (come qualcuno disse in Costituente) di un vero e proprio monarca (seppur repubblicano). È su questo che le forze politiche, se fossero serie, dovrebbero discutere.

Lungi da noi ogni astratto democraticismo: la democrazia liberale non è questo e tempera il principio democratico, espresso dal voto, con principi diversi e di garanzia costituzionale. L’impressione è che però la bilancia oggi penda troppo da una sola parte. Forse lo stesso Draghi intuisce l’anomalia di questa situazione, e sembra dire ai partiti e a Mattarella che, senza l’appoggio dei primi e senza la possibilità di poter fare, restare a Palazzo Chigi non avrebbe più molto senso né per lui né forse e soprattutto per il Paese.

Corrado Ocone, 14 luglio 2022