Conosci tu il paese dove boicottano il dress code? Una rinomata osteria padovana si veste di raffinato e lancia le cene eleganti che richiedono uno stile adeguato: apriti cielo, subito bombardata di accuse che, more solito, svanverano da novax a sessista passando per omofobo e razzista. Ohei ti: borghese. Perbenista. Fascista! La prima obiezione è la più facile: i compagni han molto tempo libero. La seconda è anche semplice: pur di rompere le scatole s’attaccano a tutto. La terza è fatale: con ‘sto politicamente corretto stanno proprio esagerando.
Tutto giusto, tutto vero ma sono riflessi, colpi che non colgono il centro. La faccenda, al di là del riflesso condizionato da trinariciuti, qualche margine di approfondimento in realtà lo suggerisce. Etico estetico, anzitutto. La sinistra femmina ha vissuto con un certo affanno la lunga marcia partita negli anni Settanta, con le donne vestite a Sbirulino o Scaramacai, sempre quell’aria da pagliacci un po’ lerci, trasandati, calzettone a righe rosse e verdi su zoccoli olandesi, catenone zingarone, diademi pacchiani e approdata alle Vuitton d’oggidì passando per la fase “da bere” faticosamente assimilata. Oggi, al capolinea della transizione che annulla i generi, le femmine superstiti, tutte del secolo scorso, sono le più sofisticate, le maggiori consumatrici di vanità, le migliori amiche consumiste di visagisti, chirurghi estetici, saloni di bellezza: eppure la patina di una certa qual volgarità non la perdono, c’è sempre come un’aria, un dettaglio a ricordare il retaggio. Come si vergognassero ad essere femmine fino in fondo.
Mai un tacco feroce, per dire e difatti uno dei motivi per contorcersi di fronte al dress code padovano è proprio il tacco 7, peraltro non questa grande altitudine, espressamente richiesto: preso come una provocazione dal moralismo piddino. Lo stesso, si badi bene, che trova modo di attaccare la Meloni anche sul look: la irridono per le scarpe basse, udite udite, poi, gli stivaletti da sergente, se lei si affida a uno stilista, per occasioni ufficiali, eccepiscono le origini garbatellari, insomma siamo solo noi, che dettiamo quel che più ci piace, a poter vestire con Versace, eeeh, oooh.
Però il tacco 7 no. Quello non passa, quello è proprio fascista. Troppo femminile il décollete, ricorda la suddivisione dei sessi che abbiamo ufficialmente abolito, al limite lo stiletto nella scarpa si usa al Gay Pride, dove assume valenza di progetto ideologico, ma alle cene eleganti si va addobbate Elly Schlein style, anzi le eliminiamo proprio le cene eleganti, facciamo solo riunioni di partito, vale a dire di comitati d’affari come le avventure del Piddì inclusivo, di mazzette, per il Medio Oriente confermano.
Un dress code è un dress code. È un codice, appunto, un manuale d’istruzioni, significato significante di una cultura borghese, se si vuole, ma che precede la borghesia, è preindustriale, è protostorica. È il “vestirsi bene” in determinate occasioni per riguardo degli altri e amore di sé, è offrire il proprio meglio, evadere il grigiore, la routine, il pigiamone la sera, è la botta di vita, anche minima, effimera, è il gioco dei sensi, il non si sa mai, l’animale che si liscia le piume, vivaddio qualcosa di istintuale ce la vuoi lasciare sinistra dei miei coglioni o debbo occuparmi, in modo atroce, di bambini*, come ha scritto quel parlamentare da centro sociale, tra gli artefici della farsa Soumahoro?
Alla sinistra va il sangue agli occhi se vede il rituale dell’ipocrisia borghese, il richiamo del soldo, il dress code ma solo perché ne pretende l’esclusiva e temendo non essere all’altezza con le sue ciocie griffate, le zuppe di tofu, gli attivisti climatici, quel che ancora sempre di pesante, di volgare che non è proletariato, è l’arricchito cialtrone della politica demagogica, in qualche modo il ladro di ideali, di fatica altrui, è la rottura di palle dei valori sbandierati, della cultura millantata, della furfanteria e la fanfaronaggine, della controipocrisia da pubbliche virtù e private perversioni di molti compagni di potere, il finto sudore di chi mai ha lavorato, è l’elettromonopattino e la Ong di rapina, il dress code da riunione sindacale, bella ciao e soldi fluo, è il ditino alzato da mettersi sai dove, è la lotta alle disuguaglianze che passa per l’abolizione di tacco 7, però se la nuotatrice Pellegrini apre sempre a Padova un locale chiamato tacco 12 nessuno fiata e le propongono di candidarsi.
Francamente, va bene tutto, anzi male, ma il woke calzaturiero anche no; la reductio a divisa cinese nel 2023, con le cinesi che pure loro stanno su OnlyFans, anche no; il dirigismo stilistico, per favore no. Ecco, che l’agenda 2030 debba passare per un’osteria dove ancora si osa cenare, vivaddio, vestiti da uomini e da donne, in chiara distinzione di ruoli, per la carità no. Facciamo che ognuno si acconci dove gli pare ai banchetti che vuole e se la sinistra manicomiale non è d’accordo, se vuole solo conciarsi, se punta all’appiattimento pure davanti a un piatto di pasta, se vuole il mondo a guisa di festa dell’Unità, è un problema suo.
Max Del Papa, 19 marzo 2023