Due Camere non hanno più senso

Il bicameralismo serve solo a nutrire una pletora di commissioni inutili, una soluzione per eliminarlo ci sarebbe

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È inevitabile guardare al Quirinale. Lo era già prima dell’approvazione della legge di Bilancio, ma non appena la manovra è stata archiviata, anche le ultime eventuali incertezze sono cadute. Tutti ad aspettare le prime votazioni a Camere unite. Ecco, le Camere! Il pensiero del Quirinale (e questi ultimi anni turbinosi) sembrano aver fatto dimenticare la mancata soluzione della questione istituzionale, o, se preferite, del bicameralismo perfetto.

Eppure, ogni anno, almeno in occasione della legge di Bilancio, ma non solo, è lecito chiedersi la ragione dell’esistenza di due Camere di pari livello. Che il dibattito sulla manovra venga incardinato alla Camera dei deputati o al Senato, la storia non cambia. Dopo una pioggia di migliaia di emendamenti, tutto si ricompone con il maxi-emendamento del Governo, che chiude ogni eventuale possibilità di discussione, per poi riportare il voto all’altra Camera, per una semplice ratifica, guidata dal voto di fiducia. Da quanti anni si ripete questo rituale? Ma non è che avesse ragione Matteo Renzi? Le urne gli hanno dato torto, certo. E lui ci mise del suo per farsi bocciare una riforma istituzionale (e costituzionale) che sembrava matura e sensata, almeno nel suo impianto sostanziale. Magari poi appesantito dalla volontà di cancellare più di quello che era lecito immaginare (dal Cnel alla riforma del titolo V).

Poi, ancora una volta, ha prevalso la quantità sulla qualità. Si è preferito ridurre il numero dei rappresentanti (anche quello si prevedeva nella proposta Renzi-Boschi), piuttosto che modificare i criteri della rappresentanza. Invece che tagliare 600 tra deputati e senatori, non era meglio ridurre direttamente tutti i 300 senatori? O se si fosse voluto mantenere una “camera dei territori” (oggi il Senato è un’altra cosa, sia per storia, che per anagrafe) si sarebbe potuto comporla semplicemente di “grandi elettori” (già eletti sul territorio), così come sono oggi i partecipanti al voto del Quirinale in aggiunta di onorevoli e senatori. La duplicazione bicamerale giustifica poi una pletora di commissioni “bicamerali” di cui non si sente la necessità. Le commissioni di una Camera non bastano?

Il bicameralismo perfetto lo condividiamo con la Svizzera e con gli Stati Uniti, che tuttavia hanno profonde differenze istituzionali, basate su una rappresentanza territoriale molto accentuata (Cantoni o Stati) e un sistema di forte bilanciamento con il presidenzialismo (almeno negli Usa). Il bicameralismo, ma imperfetto (cioè con poteri differenziati tra le due Camere) esiste in Spagna, Germania e Gran Bretagna. Insomma, ci sarebbero tutte le buone ragioni per mettere mano a una riforma istituzionale essenziale per contribuire a un efficientamento delle procedure normative, la premessa per ogni semplificazione legislativa e di una radicale riforma della burocrazia.

Ci sarebbero anche le condizioni numeriche per avventurarsi in una riforma costituzionale che non richieda nemmeno il passaggio referendario. Con una maggioranza parlamentare che sfiora il 90% si potrebbe procedere spediti alle quattro letture nei tempi che mancano alla fine della legislatura. Ci vorrebbe la sfrontatezza di un Matteo Renzi per scuotere il paludato immobilismo del Palazzo. Una sfrontatezza magari depurata da quell’eccesso di bullismo politico e di tracotanza che hanno segnato la parabola discendente del senatore con il senso degli affari.

Il timore è che il minuetto del Quirinale – e le conseguenti carole tra Palazzo Chigi e le urne prossime venture – imponga un ritmo inadatto alle esigenze di cambiamento del Paese e delle sue Istituzioni, indipendentemente dalla qualità personale del prossimo inquilino. Dobbiamo sperare (e aspettare) un nuovo Matteo Renzi?

Antonio Mastrapasqua, 31 dicembre 2021

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