Secondo un’indagine della Confcommercio, gli italiani aspirano a vivere in quartieri in cui siano presenti negozi di prossimità, perché questi rafforzano le comunità, fanno sentire più sicure le persone e fanno crescere il valore delle abitazioni. Il numero di negozi, però, diminuisce costantemente. E la politica – nazionale e locale – non può continuare a ignorare questo enorme problema.
La Confedilizia ha da tempo avanzato due proposte, che non pretendono di essere risolutive ma che certamente aiuterebbero a fare qualche passo in avanti.
1. La prima è l’introduzione della cedolare secca per le locazioni non abitative. Il governo l’ha prevista nell’ambito della riforma fiscale e il Parlamento l’ha ratificata nella legge delega approvata un anno fa. Ora, però, bisogna attuarla. Nella situazione attuale, infatti, sul canone di locazione gravano – direttamente o indirettamente – una serie di tributi (Irpef, addizionale regionale Irpef, addizionale comunale Irpef, Imu, imposta di registro) che nel complesso portano all’erosione di gran parte dell’introito previsto dal contratto. Un’imposta proporzionale, invece, una flat tax analoga a quella prevista da tredici anni per le locazioni abitative, renderebbe più appetibili questi investimenti. Che cosa si aspetta ad agire?
2. La seconda proposta è la liberalizzazione dei contratti di locazione commerciale, ingessati da una normativa risalente a quasi mezzo secolo fa (la legge dell’equo canone del 1978), che impone durate infinite e regole controproducenti come quella riguardante l’indennità di avviamento. È ora di rimuovere questo vero e proprio ostacolo all’incontro fra le parti. Dieci anni fa, nel 2014, si consentì per legge alle parti – limitatamente alle locazioni con canone annuo superiore a 250mila euro (anche se il testo originario conteneva la cifra di 150mila, poi incrementata in sede parlamentare) – di disciplinare pattiziamente i termini e le condizioni del rapporto, in deroga alla legge dell’equo canone, così “valorizzando pienamente l’autonomia privata”, diceva la stessa relazione.
E altre frasi di quella relazione suonano beffarde, considerato il tempo trascorso senza che quella possibilità di deroga fosse ampliata. “La disciplina in vigore – spiegava il documento governativo – risale per la gran parte alla originaria legge sull’equo canone (legge n. 392 del 1978) e, nonostante alcuni interventi di riforma, continua a presentare rilevanti elementi di rigidità che non hanno pari nei principali Paesi europei. L’evoluzione del sistema economico ha inoltre portato a constatare come le originarie esigenze di tutela, che vedevano aprioristicamente nel conduttore il «contraente debole», risultino largamente superate”. E ancora: “L’attuale disciplina vincolistica limita la libertà delle parti di regolare liberamente il rapporto, predeterminandolo in molti elementi essenziali (ad esempio vincoli alla durata, ipotesi inderogabili di recesso del conduttore, limitazioni alla possibilità di prevedere liberamente le modalità di revisione del canone, ipotesi inderogabili di prelazione eccetera).
Tali rigidità rendono meno appetibili gli investimenti nel mercato italiano rispetto ai mercati esteri e costituiscono un freno allo sviluppo del mercato delle locazioni commerciali e degli immobili ad uso turistico”. La domanda è: vogliamo finalmente uscire dal dirigismo degli anni Settanta?
Giorgio Spaziani Testa, 24 luglio 2024
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