Bisogna pure dirla la cosa scandalosa su Sanremo e allora diciamola. Diciamo che questo uso spregiudicato della malattia e della morte, da Ezio Bosso a Sammy Basso, è quanto meno discutibile. La ex modella Bianca Balti, eterea, lunare, merita rispetto ma non complicità; può dire quello che vuole, può dire, forse rispondendo a noi che unici lo abbiamo obiettato, che non è qui in quanto malata ma questo mettere le mani avanti è coda di paglia per una che non ha altro titolo, che mai sarebbe stata all’Ariston perché mai ha fatto qualcosa di lontanamente compatibile, e si vede, con una conduzione. Intanto è qui per troncare e sopire, ma, a prescindere da questo, una simile normalizzazione del male non ha alcun senso come non ha senso esorcizzarlo in un contesto rutilante, da baraccone. Definirlo in questo modo è completamente sbagliato, al limite dell’oltraggioso. Il malato di cancro, e sapete che vi porto esperienza fresca, va rispettato in un altro modo. Non vive tra gli altri, fluttua in una sua lattiginosa dimensione di morte. Soffre, resiste, se può, fin che può, ma disfandosi. Non è sicuro di niente. Non è liberatoria la risata calva di Balti, la sua energia artificiale noi la conosciamo bene ma non può decentemente dire che così “difende la vita”. La speranza per un malato grave è fatta di altro, per lo più di silenzio, è timida, fragilissima. Così, scusate, è solo stravolgere, svilire una tragedia che o ti porta via o ti segna per sempre, ti cambia per sempre. Già che ci sono continuo, e chiedo scusa, coi ricordi personali ma te li affido, lettore, busso alla tua pazienza, oso la tua comprensione, mi aiuti a cambiare gentilmente prospettiva?
Sanremo per me è tragico, alla Fantozzi, mi riporta ad anni lontani, così vicini in cui ci andavo in missione arrangiandomi come potevo. Le maratone serali fino alle due, le tre antelucane, il pezzo trasmesso a caldo, 12 ore filate in sala stampa e dopo uscire sotto il nevischio di febbraio che è bastardo, arrancare fino al supermercato aperto 24 ore, riempirmi di roba tossica, chilometri in salita col cuore che scoppia e la sigaretta in bocca fino all’alloggio, sempre di fortuna, mangiare nel gelo, dormire nel gelo, lavarsi nel gelo, un sonno agitato di fantasmi e all’alba ricominciare. Ogni volta perdevo 4 chili in una settimana, tornando mia moglie non mi riconosceva. Io mi sono ammalato lavorando in condizioni disumane, come mio padre morto troppo presto. Certi intrugli poi han dato una mano, scatenando il male dormiente. Adesso per fortuna seguo la maratona dal letto, coi gatti che mi dormono addosso, in una stanza confortevole e riscaldata. Se voglio mi alzo, mi sgranchisco, mi mangio un dolcetto. L’anno scorso ho pagato quelle antiche autodistruzioni e scrivevo in piena chemio, in reparto, con gli altri che mi guardavano come si guarda un pazzo.
Adesso mi crogiolo con voluttà casalinga nel lamento dello sfacelo a cui assisto e mi accorgo che, nella perennità di un degrado che non conosce il suo ground zero, ci sono alcune parole d’ordine, alcune locuzioni tipiche al Festival di regime dei cantanti cani: “contaminazione”, “ispirazione”, “mettersi in gioco”, “sono molto felice”, “ci divertiamo”, “la magia di questo palco”, “energia”, che se li vedi dal vero, senza i filtri della televisione, son tutti dei mortinpiedi da far spavento, come Jovanotti che casca ‘n’altra volta a rischio di rompersi le protesi bioniche.
A dire la vasellina verbale che piace a tutti i conduttori, allampanati, al quarzo, allo spiedo, ugoledoro, guitti, decrepiti, riverginati, da che Sanremo è Sanremo ciascuno dice: le polemiche non le temo. E sta dicendo che le aspetta, che senza polemiche questa recita parrocchiale non val niente. Se non ci sono, si inventano, si costruiscono sull’aria che cammina. Tutti terrorizzati ma vogliosi, anche il giovane vecchio Cattelan che alla fine ce l’ha fatta anche se dallo sgabuzzino del dopofestival, e parla di mamma e papà, con la Lucarelli che voleva i novax “ridotti a poltiglia verde”, ed è stata giustamente premiata: tutti qua per meriti, per servigi resi. Tutti ammaestrati come foche al circo perché tutto deve filare sull’olio del prevedibile, del conformismo fascistoide. Bravi i provocatori del sabato sera, incattiviti con chi non se li fila, scatenati con gli inermi, ma addomesticati dal regime che li tiene. Poi dicono: che noia, non succede niente. Per forza, siete lì apposta. O ve la volete cavare con Malgioglio che essendosi reso irreale è uscito dal tempo? Ecco, lui è l’epitome del regime transgender che cambia il piumaggio ma resilie imperterrito, passano le repubbliche, le dirigenze, i Festival ma “la Malgy” resta, sempre più spompo e irreale. E normalizzato perché ormai i cartoni animati sono la regola. Dicono abbia dietro la destra nazionale dai tempi di Fini, sta di fatto che con l’autoironia della svampita stagionata risulta il più digeribile se non digestivo.
Ma, allora, compagni, arrivano o no i segreti di cui parlare?
Quelli veri assolutamente no, da tener chiusi nel sancta sanctorum delle vergogne. Qui siamo tutti amici che vuol dire nessuno è qui per caso, tutti col loro bravo sponsor di grana politica, anche le misconosciute fagiolone in pigiama che un tempo fallirono a X Factor e allora che ci fanno qua? Elodie non voterebbe Meloni manco monca! Ma sì, abbiamo capito, siamo tutti amici, tutti antifascisti per dire educati, sportivi, stasera tocca a La9 che presta Frassica, parliamo di cose di famiglia, facciamo inquadrare mogli e figli. A nostro modo siamo inclusivi, e allora? Allora l’unico scandalo è la tinta di Conti, è dar da cantare Lucio Dalla a quello scappato di casa dei Maneskin, allora si muore di noia, non è successo niente, non succede niente, ma vedrete, qualcosa si troverà, si dovrà trovare. Se no sono guai! Non ci si può mica accontentare dell’erotismo stanco e vagamente lercio, da amplesso in cucina, della subconduttrice scollacciata che dice al facsimile Gastone di Petrolini ti scoperei e l’altro la guarda maliardo, il mio numero lo sai.
Perché non c’è altro: al secondo passaggio è anche più evidente: non sono cantanti, sono la smentita dei cantanti da Michielin a Michlein: Big Mama. Quando va bene modelle, indossatori e si capisce: il canto è solo la scusa, questi dalla bellezza dell’asino debbono far girare i soldi con l’estetica dei calendari, della pubblicità. Stasera ci sono gli scappati dall’asilo che vanno dal circense al bimbominkia piddino, due insaccate chiedono a non si sa chi se è pronto per fare l’amore e poi tirano fuori un cartello antipatriarcale. Cose del tutto prive di logica, come la giacchetta da plaid di Cattelan. La stessa memoria è tabula rasa, è uno stupro continuo. Non c’è retaggio ma plagio, quello di Lucio Corsi sul Renato Zero del 1973 è da galera, perfino la mimica gli ha scippato, le movenze; non tradizione ma finzione; non rispetto ma presunzione; non c’è confronto perché è andato irreversibilmente perduto il modo di costruire canzoni, fine della partizione canonica, intro, strofa, strofa, ritornello, ponte, strofa, chiusura. Giusto Ranieri, che fa la figura del reperto archeologico.
Il Lampadone fulminato proditoriamente lancia roba dei Ricchi e Poveri o Pupo, come a dire che quella che passa non è abbastanza commestibile; infatti non lo è, ma come fanno i sedicenti critici musicali? Si prendono in giro da soli? Sono pagati da Usaid anche loro? Di certo mentono, ho passato anni in sala stampa e li vedevo scrivere regolarmente l’opposto di quello che gli sentivo dire. Molti non sono critici, di musica sanno niente, nella migliore delle ipotesi archivisti che non hanno mai preso in mano uno strumento, letto una nota, del tutto ignari dei fondamenti dell’armonia, della melodia, del canto; se ne vantano, dicono: ma questa roba non serve, quello che conta è il senso mediatico, per dire il fenomeno senza noumeno come lo vede Schopenhauer, il velo di Maya, insomma la capacità di ingannare chi ascolta, ma ascolta da sordo; il valore di un presunto artista in base al peso della sovrastruttura che lo impone, un criterio molto politico, molto di potere.
Essendo manifestazione del potere, Sanremo induce il dovere moralistico di salvare il salvabile. Che non c’è, altro che non ti va bene niente. Chi ascolta non ci fa caso, è fuorviato dall’apparenza, dall’estetica delle griffe, ma salvo un paio di mosche bianche che fanno da sè, come Cristicchi che sta prendendo le misure alla sua canzone, il resto è sbobba rimestata dai soliti tra i quali infierisce una misteriosa Federica Abbate, la negazione compositiva su scala industriale. La canzone di Giorgia è un caso a parte, evidentissimo polpettone di scarti, ritagli, frattaglie di almeno dieci pezzi ricuciti insieme, un Frankenstein tristanzuolo ma utile a salire sul podio (lo ribadisco, mi azzardo, con il paraculesco Corsi e il terzo ve lo dirò).
C’è un’altra parola in voga a Sanremo, una faccenda vernacolare che mette insieme la presuntuosa Villain (bella quanto insulsa) e la storicizzata Marcella: è “cazzimma”, che sarebbe avere le palle, avere carattere ma forse è più preciso essere una carogna, una che non guarda in faccia nessuno. Una “bella stronza” come quella di Masini che la ricanta con Fedez ma bisogna contestualizzare, sia mai che qualcuno si offende, qui siamo tutti antifascisti. A proposito, la tamarrata patetica del compare dei pendagli da San Siro se volete capirla sul serio dovete sentirla sotto la doccia della palestra, allora vi risulta la profonda densità di Topo Gigio.
Max Del Papa, 13 febbraio 2025
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